GRUPPO DI STUDIO PER IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

Antonello Correale (*)

Memoria implicita, area traumatica e schemi emozionali:
aspetti psicopatologici ed implicazioni cliniche

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L’infanzia è un doloroso periodo
dal quale il Sé cerca di riprendersi
per tutta la vita. (Ch. Bollas)

     Il nostro discorso è collegato anche al problema del disturbo del carattere della personalità borderline, non perché io abbia per questo disturbo, cioè in realtà ce l’ho, un interesse particolare e un’attrazione particolare. Ritengo che il disturbo borderline si presti a rappresentare molto efficacemente il tema del trauma nella maggior parte della vita psichica, forse più di qualunque altro disturbo del carattere, e poi vorrei accennare qualcosa per quanto riguarda le conseguenze di questo discorso per l’ operatività dei gruppi che se ne occupano, però farò soltanto alla fine un accenno.

     Io credo che il trauma vada abbastanza ridefinito, perché il trauma è un concetto troppo vago, perché ciò che è trauma per qualcuno non lo è per qualcun altro, e poi il trauma si può prestare a creare confusione perché non si sa se si sta parlando di un evento estremo, catastrofico, di un evento che mette in discussione la continuità della vita o della salute o semplicemente di un’esperienza emozionale particolarmente impegnativa; insomma, c’è il rischio di parlare del trauma come di un concetto confuso. Ma di solito questo concetto è confuso se noi ci riferiamo al trauma limitandoci a studiare l’evento traumatico, che appunto può variare.

     Ma se noi definiamo il trauma in base alle conseguenze che ha sulla vita psichica allora possiamo avere una definizione di trauma più precisa, mi pare.

     Io vorrei allora proporvi questa definizione: definiamo trauma ciò che ha sulla vita psichica l’effetto di dissociare la situazione emozionale dalla situazione cognitiva e di creare un vuoto momentaneo rappresentativo sostituito con un pieno emozionale. Vale a dire, in altre parole, che la vicenda traumatica avrebbe la capacità di disattivare le funzioni rappresentative della mente attivando esageratamente le funzioni emozionali. Cioè sarebbe come un allagamento che fa fuori le attività frontali superiori.[1]

     È come se in quei momenti il nostro cervello dovesse completamente rinunciare ad alcune delle sue attività per concentrarsi soltanto su altre, come se facesse una specie di risparmio della sua attività, risparmio che però può essere pericoloso perché per la perdita di queste funzioni e l’eccessiva attivazione di altre si determina quella situazione che è quella, poi, che non permette lo sviluppo, ma immobilizza.

     Allora, se noi lo vogliamo definire così, il trauma diventa anche un’esperienza più leggibile, e anche dal punto di vista delle neuroscienze è più confrontabile.

     Se vediamo la cosa in questo modo, allora innanzitutto possiamo dire che il trauma ha la capacità di impedire momentaneamente la attività rappresentativa superiore. Secondo, il trauma ha la capacità di creare una tendenza inarrestabile alla ripetizione dell’evento traumatico. Questo, forse, è l’aspetto più drammatico, e direi più spaventoso, del trauma, che si collega con la coazione a ripetere e con l’estenuante esperienza che tutti noi facciamo, che in certi tipi di carattere la vera lotta che queste persone si trovano a combattere avviene sempre con la stessa scena, e questa scena non si cancella, cioè che sia una specie di ossessione, di imprigionamento in uno scenario catastrofico che si ripresenta quotidianamente e che nonostante i nostri tentativi di affettuosità, le nostre rassicurazioni, interpretazioni, spiegazioni, tenerezza, l’aiuto, i farmaci, questa tendenza a ritornare sistematicamente sul luogo del delitto, diciamo, dove è avvenuto il delitto, dove qualcuno ha ammazzato qualcun altro, o perlomeno dove qualcuno ha inciso profondamente sulla struttura psichica di qualcun altro, e questo suo agire violentemente sulla struttura psichica di qualcun altro equivale in qualche modo ad una uccisione.

     Terza cosa, il trauma ci riporta indietro nel tempo. Il trauma determina il fatto che alcune esperienze sono fatte uscire dalla sequenza temporale, e vengono collocate accanto alla vita, cioè la vita va avanti, ma c’è un punto di partenza fermo, cioè non ci si muove da quel trauma, da quel momento.

     La psicoanalisi e le neuroscienze hanno moltissimo da dire su questo argomento e, anzi, spero che questo sia condiviso anche dagli altri relatori, il trauma è uno dei terreni privilegiati del confronto fra le nostre discipline.

     Come primo punto direi che già Freud, in Al di là del principio di piacere, un lavoro molto contrastato ma secondo me molto importante, aveva introdotto la nozione di pulsione di morte. Contrariamente a quanto si dice, che a un certo punto Freud si sarebbe distaccato dal trauma per concentrarsi soltanto sulla vita interiore e la vita reale sarebbe sparita, così non c’è più trauma e la vita reale non ha più importanza, in realtà le cose non sono andate così. Questo è uno dei filoni, ma in fondo Freud ha mantenuto sempre invece, e in certi momenti più fortemente che in altri, il suo interesse per il trauma, e dice che in fondo ci sono delle cose che succedono, il reale fa irruzione nella nostra vita, e la modifica proprio perché è reale, perché c’è qualche cosa che non è completamente assorbibile nella vita psichica ma si propone come un elemento di irriducibilità. Cioè per quanto noi lo pensiamo, lo fantastichiamo, lo interpretiamo, lo umanizziamo, c’è qualcosa nella nostra vita che non è del tutto riconducibile al pensiero: il corpo che va per conto suo e che ha le sue leggi, la morte, il sesso, che per quanto noi lo pensiamo e lo umanizziamo è comunque una forza che ha una sua autonomia che ci trascende in una certa misura, ci domina ed è dominata da noi, e molte altre cose, e l’”altro”, soprattutto, gli esseri umani, che sono anche loro dotati di un elemento di irriducibilità.

     Dice Freud, quando si è interessato dei traumi di guerra: «Ma come mai questi soldati, che hanno avuto un’esperienza negativa, una bomba che è esplosa, un compagno ucciso, una ferita grave al proprio corpo, delle cose che lasciano un terrore dentro, continuano a ripensare continuamente a questa cosa, cioè ritornano e ritornano e ritornano sull’evento traumatico come se non potessero liberarsene? C’è qualcosa di più, non è solo che non riescono a liberarsene, ma sembra che l’evento traumatico abbia una capacità attrattiva per il pensiero, cioè non se ne possono liberare ma ci ritornano, è come se desiderassero dolorosamente di ritornare continuamente su quella cosa».[2]

     Questo è un aspetto molto importante, perché in qualche modo questa attrazione dell’evento mortifero è qualcosa che richiede una spiegazione, deve essere spiegata.

     Allora Freud in qualche modo dà questa spiegazione: «L’evento traumatico disarticola, perfora lo scudo protettivo, la barriera protettiva dell’individuo»[3], quindi l’esperienza soggettiva è quella di qualcosa che viene perforato e che viene, come dire, acceso dentro in modo straordinariamente potente, allagante, devastante. Quindi, c’è una perforazione dei confini e c’è anche una specie di esplosione interiore che dilaga con una potenza incontrollabile. E questo è il primo punto che mi pare molto importante, c’è in qualche modo questa potenza, come si può dire, che fa esplodere.

     L’altra cosa è invece l’aspetto dissociativo.[4] La persona, cioè, in qualche modo non sembra in grado di ricordare quello che è successo, ma soltanto di riportare una esperienza che è dotata di alcuni elementi emozionali ed è dotata anche di alcuni elementi sensoriali, ma questi elementi sensoriali non ci compongono la scena unitaria, non ci compongono il ricordo, ma si dispiegano nello spazio mentale come frammenti, come pezzi, frammenti che si trovano permanentemente in una condizione di non-sintesi. Questo è un aspetto al quale ci tengo molto. Freud lo dice con il suo linguaggio, che noi possiamo adesso considerare come metaforico: «il trauma determina un eccesso di energia libera e una obliterazione, un calo di energia legata». Lasciamo stare ora le precisazioni e non ci addentriamo in discussioni etimologiche sull’energia, ma l’energia libera in qualche modo è l’emozione e l’energia legata è il pensiero. Quindi, in qualche modo, Freud ci indirizza su quello che poi noi abbiamo scoperto, anche con grande forza, mi pare, che in qualche modo il vero sacrificato dell’esperienza traumatica è l’attività rappresentativa del pensiero.

       Questo, poi, mi pare che venga confermato dagli studi di neuropsicologia sul trauma che appunto ci parlano di una sindrome dissociativa. Cioè, in qualche modo, tutto il cognitivismo e gli studi successivi sul trauma ci indirizzano sull’importanza del fattore dissociativo. Cioè, in qualche modo, il trauma determinerebbe dal punto di vista neurofisiologico delle modificazioni dell’attività corticale, perché ci sono degli studi che tendono a dire che nel corso dell’esperienza traumatica l’attività corticale superiore viene spiazzata, l’attività della corteccia associativa viene momentaneamente sospesa. Allora siamo in presenza di un’esperienza che viene percepita come una minaccia alla vita che segna una cesura nel decorso del tempo e che lascia un ricordo non tanto di che cosa è successo con i suoi particolari ma di una totalità emozionale correlata e corredata con frammenti sensoriali scissi, che possono essere esperienze allucinatorie o altre forme di disturbo, ma che comunque non sembrano in grado di collegarsi insieme in uno scenario ricostruito e comprensibile. Questo è il primo punto.

     Il secondo punto che vi dicevo è quello della coazione a ripetere. Io sono molto affascinato da questo problema perché mi pare che tutte le spiegazioni che noi abbiamo relative al perché queste persone ritornano continuamente a ricercare il luogo del trauma io non lo so ancora dire con chiarezza, lo intuisco.

     Freud diceva che gli esseri umani lo fanno perché hanno bisogno di controllare quello che succede,[5] è come se ritornando ogni volta sulla scena del delitto fosse un tentativo di capire finalmente che cosa è successo. Siccome io non lo posso descrivere, non lo posso capire, ritorno a visitarlo ininterrottamente. Ci sarebbe cioè una istanza di controllo, in qualche modo, in questo ritornare continuamente. Però, di fatto, questa istanza di controllo è continuamente messa sotto scacco perché continua in qualche modo ad esporre le persone allo stesso trauma. Pensate a quelle persone, appunto, di tipo borderline, che sembrano costrette a ripercorrere sempre la stessa scena, e quando poi staranno meglio, ed è passato il momento emozionale più consistente, dicono: «non posso farne a meno, cioè sono attirato dentro questa scena».

      In fondo Freud è stato rifiutato troppo rapidamente per questo suo concetto dell’istinto di morte, su questo non c’è dubbio, ma è un concetto che non può essere del tutto liquidato, perché il trauma, si può dire, rappresenta anche il momento in cui si fa strada il reale, si fa strada l’ignoto.[6]

     Cioè la vita contiene un lato che noi non conosciamo e che è più forte di noi ma che anche in qualche modo può contenere una sorta di oscura e terribile verità. Il trauma è il momento della verità, il momento in cui emerge la dimensione tragica della vita e non solo la dimensione umanizzata in cui noi cerchiamo di vivere.

Allora può darsi che questo terrore e anche fascino della morte, possa spiegare questo tentativo di ritornare a questa realtà per cercare di vederla in faccia e di capire meglio che cosa è questa morte a cui siamo andati incontro quel giorno, in quella certa circostanza. Quindi il trauma, continuo a ripetere, come tentativo di controllo ma anche come tentativo di non staccarsi da questo contatto con questa esperienza di morte, perché diciamocelo, la morte è terribile ma è anche capace di attrarre la nostra mente, non possiamo dire che la morte non ci affascina, perché tutti siamo attratti e affascinati dalla morte. In qualche modo un’ipotesi avanzata da Freud è che c’è questo bisogno di ritornare a quest’ordine primordiale, a questa pace originaria, in cui tutto era piatto, che è terrificante ma che ha in sé anche qualcosa di affascinante, una specie di negatività assorbente.

     Mi sembra, allora, che questa problematica del trauma rientri in una filosofia esistenziale molto sentita, non una filosofia esistenziale che si fa tranquillamente in riva al mare.

     Il terzo elemento è quello del tempo, cioè, in qualche modo, il trauma determina una cesura del tempo e ci mette nella condizione di ritrovarci in una temporalità immobile, che si ripropone sempre identica.[7]

     Uno degli aspetti più drammatici dell’esperienza soggettiva del paziente borderline deriva da un suo perturbato e irregolare rapporto col tempo. In questo tipo di disturbo, infatti, il paziente non vive la sensazione del tempo come un flusso ordinato o come un ritmo dotato di leggi (quindi in qualche modo ricostruibile), ma come una serie caotica di episodi parziali, ognuno dei quali sembra candidato, in uno spazio suo proprio, a conquistare una prevalenza e protagonismo sugli altri.

     Questa condizione – che potremmo definire di disconnessione, per distinguerla dalla frammentazione psicotica – sembra derivare in larga parte dalla difficoltà di questi pazienti a far funzionare una trama complessiva unificante, sensoriale e affettiva, per cui la vita psichica acquista un carattere di disordine, discontinuità e imprevedibilità.

     Il senso del tempo che ne deriva è caratterizzato da angosce di perdita dell’esperienza e emorragia del senso di sé. Al posto del fluire, abbiamo un’ immobile sensazione di un confuso agitarsi senza direzione, oppure quella noia e quel vuoto, che può ben essere denominata come una deconnessione della rete di relazioni viventi tra le cose e gli eventi.[8]

     Intanto il concetto di trauma va arricchito e verificato con il concetto di relazione traumatica. Cioè, non c’è soltanto il trauma come singolo evento come la guerra etnica, la catastrofe naturale, la perdita di una persona cara, un terremoto… Questi sono traumi legati a un singolo evento traumatico. Però, purtroppo, ci sono delle situazioni che sono delle relazioni traumatiche.

     Ci sono delle relazioni traumatiche in cui il bambino viene esposto ad un adulto che sembra in grado di determinare in lui permanentemente uno stato di allarme. Cioè, l’adulto fa violenza non attraverso una persecutorietà strutturata, non è «mio padre mi vuole male», non è la persecutorietà del paranoico, che dice questa persona mi odia e perciò io ti odio perché mi hai fatto questo, ecc. No, non si tratta di questo tipo di persecutorietà, si tratta di una forma di persecutorietà molto più primordiale. Cioè quella persona con la sua sola esistenza mi impedisce di pensare, mi impedisce di stare tranquillo, mi impedisce di oziare, cioè riesco ad essere me stesso solo quando quella persona non c’è, o meglio, quando io riesco a dimenticarmela per un po’, perché se io non riesco neanche a dimenticarmela, allora io me la porto dentro tutto il tempo e mi abita continuamente.

     Nella mia esperienza con pazienti borderline gravi c’è questa idea di essere stati a lungo a contatto con un adulto che con la sua sola presenza sembra in grado di poter mettere dentro violentemente nel nostro paziente borderline dei sentimenti, degli eccitamenti, delle violente emozioni che sembrano in grado di disarticolare la capacità di pensiero, di disarticolare il tessuto unitario del senso di sé, e quindi il paziente deve sempre stare a fronteggiare il rischio di questa penetratività violenta.

     Nella mia esperienza molti pazienti borderline sono stati esposti a questo meccanismo perverso, non però perverso nel senso sessuale del termine, in realtà c’è anche questo, ma io direi che per perversione si intende la fantasia di potere influenzare e controllare la vita psichica di un altro, non tanto di usare l’altro come un oggetto, quindi la perversione è il piacere di dominare la soggettività dell’altro,[9] non di agire sull’altro. La perversione è la fantasia di esercitare una intrusione massiccia nella vita psichica di un altro.

     Allora io credo che questa è già una esperienza che ha qualcosa di più del trauma di cui parlavamo prima, perché è l’esperienza di una penetrazione così violenta dell’individuo con le parole, con gli atti, che continuamente impedisce una vita psichica libera, basata sul pensiero, sulla fantasia, sul sogno. È una penetrazione così violenta che costringe il nostro paziente ad occuparsi continuamente di questo oggetto che lo domina. Ora, io credo che quando ci sono queste relazioni traumatiche di questo genere, l’esperienza di allarme nella vita diventa determinante e la persona sia continuamente immersa nell’idea che non ci si possa distaccare da qualcosa che continuamente ci chiama a rendere conto di qualche cosa che facciamo.

     In altre parole si potrebbe dire: il paziente borderline è costretto a ripetere all’infinito una relazione traumatica di cui ha bisogno e che al tempo stesso continua a traumatizzarlo. E’ attaccato ad un oggetto di cui non può fare a meno che però gli fa male.

     Allora potremmo chiederci se questo succede perché il paziente ha un tale bisogno di attaccarsi a qualcosa per sfuggire alla solitudine in cui vive, che impulsivamente si precipita sul primo oggetto che trova, e quindi trova anche oggetti cattivi, oppure c’è una sfida, in qualche modo si vuole ritornare a contatto con quell’oggetto cattivo perché c’è bisogno di ripercorrere nella vita adulta l’esperienza che si è fatta nella vita infantile. Io sono convinto che quest’ultimo fattore ha una certa importanza, che c’è una costrizione molto drammatica, molto dolente, come dire “io ci devo ripassare per quella cosa, ci devo sempre ripassare.”

     Io credo che tutto questo abbia delle ripercussioni importanti sulla terapia. Intanto vi proporrei questa ulteriore articolazione di cui vedremo in seguito la possibilità operativa.[10]

     Ora vorrei per un momento articolare questo discorso in cui ho fatto riferimento alla dissociazione cognitivo-affettiva, al discorso del tempo e alla coazione a ripetere, con un discorso che fa Russel Meares, questo nostro collega di Sidney[11] il quale si rifà al modello di Hughlings Jackson, il padre della neurologia britannica, e dice in qualche modo che c’è un “me”, che sarebbe il Sé che ci viene dato dall’esterno, che è il Sé sociale, mentre l’”io” sarebbe invece quella capacità che noi abbiamo di metterci in contatto con noi stessi, il nostro corpo, il nostro senso di vivere, la nostra progettualità esistenziale. In qualche modo, il momento in cui l’”io” e il “me” si possono collegare, è il momento dell’ozio, dice lui, o il momento del riposo.

     Il tema del riposo mi sembra di importanza cruciale. Il riposo, infatti, non è mai soltanto una cessazione dello sforzo, una pausa pura e semplice, un intervallo. Nel riposo, si mettono in moto meccanismi mentali di grande importanza. Il più importante di questi concerne l’uso dei ricordi al fine di creare nuove connessioni di pensiero, aggregati non ancora conosciuti, punti di vista allargati. Il riposo, la libertà della mente in uno stato fluttuante e ampiamente mobile, quello stato di veglia rilassata di cui parlano i neurofisiologi, (e non saremo mai abbastanza grati a Freud di aver continuamente e con tanto vigore sottolineato l’importanza di questa condizione psichica) è la premessa indispensabile perché questa attività psichica possa dispiegarsi.

     Il riposo, però, come lo descrive Meares, presuppone due condizioni. La prima concerne un cambiamento di contesto. Lo sfondo deve essere diverso da quello consueto e connotarsi come palesemente produttivo a questo fine: il silenzio, la natura, la musica, insomma un quadro che stacchi dal consueto, perché per il borderline lo sfondo consueto è già di per sé persecutorio.

     La seconda condizione è ancora più importante. Essa riguarda l’altro, la presenza, che deve fornire questa funzione di riparo strutturante, mentre nella vita consueta del borderline, l’altro ha sempre svolto la funzione opposta, quella cioè di creare rumore, confusione, indurre ferite, umiliazioni, persecutorietà. [12]

     Su questo tema del riposo possono convergere aspetti neurofisiologici ed aspetti neuropsicologici, in quanto esistono degli stati di veglia rilassata in cui entriamo in contatto con noi stessi, ma esistono anche dei momenti in cui noi abbiamo bisogno di leggere, di scrivere, di muoverci, di stare con gli amici, di fare l’amore con la nostra ragazza; ma ogni tanto abbiamo anche bisogno di stare soli, e attraverso la solitudine entriamo in contatto con le due parti di noi, cioè una parte sociale e una parte più interna, più corporea, il Sé immediato, qualcosa del genere.

     Ora io vi proporrei questa idea. Questa νοός, che nell’antichità era molto valorizzata come un momento in cui era possibile sviluppare l’attività interiore, forse fantastica, forse poetica, un momento privilegiato della vita, è un momento in cui il riposo permette una rivitalizzazione, un contatto con alcune parti di noi che nella vita quotidiana tendono per le necessità della realtà a rimanere separate.

     Allora si potrebbe dire: la persona traumatizzata, in quanto è stata allagata da emozioni ripetute con una relazione cattiva oppure ha subito veri e propri traumi, è così allagata dall’emozione per cercare di riprendersi dal trauma, che questo allagamento, diciamo così, si interpone come un muro, una separazione, una barriera tra queste due parti si sé e queste due parti di sé rimangono sempre in qualche modo scisse, per cui attingere all’io corporeo, originario è sempre estremamente difficile perché c’è una specie di prevalenza del mondo esterno, che risucchia questa possibilità di sentire se stessi, è come se la realtà fosse troppo prepotente, oppure il corpo con la sua presenza, e ci priva della possibilità di ascoltare noi stessi.

     L’impossibilità di riposare mi pare una delle caratteristiche più drammatiche del paziente borderline e dei pazienti in genere che sono stati traumatizzati, perché il riposo rappresenta sì il piacere di andare incontro a questa parte di noi meno strutturata che ci spinge verso la sensorialità, ci spinge verso la sessualità, ci spinge verso la curiosità, mentre invece lì no, sembra che questo aspetto sia continuamente bloccato. Quindi una delle conseguenze del trauma, oltre alla dissociazione ideo-affettiva, è anche la creazione della scissione all’interno della vita umana tra le due componenti del Sé, quella diciamo più legata ad una dimensione sociale e quella più legata ad una dimensione interiore.[13]

     Questo discorso è collegato con quanto dice Russel Meares citando Hughlings Jackson, quando lui dice in qualche modo che la dimensione superiore è quella di una coscienza che è in grado di diventare autocoscienza.

     Cioè noi esistiamo, ma per sapere chi siamo abbiamo bisogno non solo di ascoltare la nostra fantasia, i nostri pensieri, i nostri ricordi ma anche il nostro corpo, i messaggi che ci mandano le nostre gambe, le nostre ginocchia, il nostro cuore.

     Questa è un’altra componente del trauma. Il trauma tende a dissociare la funzione della coscienza riflessiva dalla coscienza nucleare. Tutti sono d’accordo nel riconoscere che c’è una coscienza che è più basata sulla capacità riflettente, associativa ed una coscienza che è più vicina ad un puro esistere, un puro piacere di esistere. Quindi diciamo che un’altra conseguenza del trauma oltre alle conseguenze sulla funzione rappresentativa del pensiero è anche quella di creare, attraverso una iper-realtà, una eccessiva presenza della realtà, una scissione all’interno del Sé che in qualche modo tende a riproporsi con modalità ostinate e perverse.

     Questa tematica, in qualche modo drammatica, ma anche affascinante, forse presuppone una ricaduta in termini di operatività, anche se questa giornata non è in alcun modo dedicata alla terapia. Però mi piace immaginare anche che questo discorso possa avere una ricaduta di tipo terapeutico.

     Allora io proporrei questa cosa, per riprendere anche quello che diceva il professor Mancia a proposito del sogno e del transfert. Come si può creare un ponte tra le due modalità di funzionamento della mente, una più specificamente legata alle emozioni e alla funzione rappresentativa e l’altra più specificamente legata al linguaggio? Non crediamo noi di usare il linguaggio in una forma che si sovrapponga all’esperienza ma non sia una vera traduzione dell’esperienza? Il problema è quanto questo linguaggio perde continuamente qualcosa nella traduzione dall’emozionale al linguistico. Sicuramente c’è questo fatto.

     I sogni, come ha detto molto acutamente il professor Mancia, possono fare da ponte. I sogni, cioè, sarebbero una specie di sonda che noi mandiamo nella memoria implicita, e io direi anche nel trauma, nell’area traumatica che è quella che continuamente ci viene riproposta.

     Questo credo che sia un fatto molto importante, questo suggerimento. Io aggiungerei un elemento di ulteriore sviluppo, cioè il sogno dovrebbe diventare, secondo me, in qualche modo, un sogno pubblico, a due, o un sogno di gruppo. Il sogno da solo è un primo passo verso questo ponte, però, è necessario che succeda un po’ quello che succede nell’arte, dove il privato diventa poi anche pubblico, dove un’esperienza personalissima della persona diventa poi pubblica.

     A me sembra che per affrontare il tema del trauma e delle esperienze traumatiche ripetitive noi ci dobbiamo dotare di un linguaggio che sia sufficientemente poetico. Intendo per poetico un linguaggio che sia molto impregnato di sensorialità, ma una sensorialità che ha delle valenze narrative, delle valenze comunicative, per cui all’interno delle immagini sensoriali ci sia come una apertura verso una scena più ampia che è prevalentemente la scena che la persona cerca di raccontare.

     Questo mi sembra un aspetto molto importante. L’altro aspetto è relativo alla grande pazienza che ci vuole per riproporre continuamente a queste persone la modalità d’insorgenza dello scenario traumatico e delle caratteristiche che lo determinano.

     La principale dote che ci vuole per curare un paziente borderline è la tenacia, bisogna essere molto, molto tenaci, e avere anche un gruppo che ci supporti. Non che la tenacia sia una qualità difficile da raggiungere, ma proprio perché il nostro paziente impari a capire come funziona questo meccanismo, è necessario che per tante, tante volte noi diciamo: «vedi, è andata così, è successo così, c’è stata una frase che ti ha ferito, una telefonata che non è arrivata, una persona che è partita, un discorso che è stato frainteso. Ecco, questa cosa ha innescato, questo microtrauma ha innescato tutta la sequenza. Cioè, qual è la sequenza: la disforia, la perdita del senso della realtà, l’arrabbiatura, la noia e il senso di vuoto ecc.».

     Il trauma mette in moto proprio quella perdita di capacità rappresentativa e al posto della capacità rappresentativa si presenta tutta la sequenza che sappiamo, la disforia, l’arrabbiatura ecc…..

     Io credo, dall’esperienza che ho con questi pazienti, che non è grandissima ancora, ma comincio ad appassionarmi a questo tipo di pazienti, vedo che dopo un po’ di tempo, se si ha la forza di insistere molto su questo tema della ripetizione, e più che altro sul meccanismo che innesca la sequenza traumatica, il nostro paziente si rende poi conto che il meccanismo è sempre quello, il tradimento dell’oggetto amato, o almeno il supposto tradimento, che gli conferma che l’oggetto amato è inaffidabile.

     Ecco, questa è una situazione che dimostra al paziente che la vita è ingiusta, che gli altri sono ingiusti, che io sono stato trattato male. Questo mi sembra che, se ci si torna sopra tante volte, è qualche cosa che consente alla persona di acquistare una certa capacità anticipatoria, e riesce a controllare questa sequenza.

     La terza cosa era questa idea di aiutare il paziente borderline traumatizzato a giudicare gli altri, a farsi un’opinione degli altri.[14]

      Io penso che il lavoro più importante, più che dire a questi pazienti tu sei così, tu sei colà, tu c’hai la rabbia, il senso di vuoto ecc…. è invece di dire: «Ma sei sicuro che questa persona ti abbia veramente fatto questo?». Questo capisco che da un punto di vista psicoanalitico può essere una cosa un pochino anomala, però è importante aiutare i pazienti a farsi una opinione degli altri, cioè non lasciarli soli con le loro carenze di giudizio. Se è vero che il trauma spacca il rapporto tra giudizio ed emozione, allora in qualche modo questo giudizio lo dobbiamo ricostruire. Questo è un cambiamento di tecnica molto grosso. Se noi abbiamo a che fare con persone che hanno la coscienza alterata, più o meno modificata, non possiamo aspettarci che queste persone accettino le regole psicoanalitiche come se fossero dei normali nevrotici. Questo richiede un cambiamento tecnico molto importante. E’ come se queste persone avessero, si fa per dire, dei buchi nella testa, e noi dobbiamo aiutarli a riempire questi buchi. Questo non ha nulla a che fare con non fare interpretazioni o con l’accanirsi sulla verità, però dobbiamo ricordarci che ci sono mille cose nascoste nella realtà… Questo è un punto della tecnica molto importante e molto delicato, ma credo che sia anche molto utile.

    La nostra funzione è anche quella di aiutare queste persone non a recuperare un senso della realtà, perché quello loro non lo perdono, ma a non perdere questa capacità di giudicare la realtà, di farsi un’opinione della realtà. Aiutare il nostro paziente a farsi un’idea che gli altri hanno una mente, e che questa mente è molto complessa, l’altro non è come un corpo contundente, ma è una persona che ha la sua complessità.

    Arriverei quindi alla conclusione dicendo che tutto questo presuppone anche una tendenza controtransferale, cioè, mi chiedo se noi pensiamo veramente che l’esperienza traumatica abbia queste caratteristiche che fanno sì che la fenomenologia, le neuroscienze e la psicoanalisi possano incontrarsi, così come ho cercato di illustrarvi brevemente oggi, però sicuramente il trauma allora richiama anche noi operatori, noi psicoanalisti, noi psichiatri ad un rapporto un po’diverso con questa realtà.

     Io voglio dirvi che in Freud c’era anche questa visione un po’ drammatica della psicoanalisi, mentre oggi c’è una eccessiva tendenza pacificante, per cui se c’è l’altro vicino tutto si sistema. Io non credo che sia così.

     Allora bisogna stare attenti a non avere un certo piacere, se così si può dire, ad allontanarsi da questa esperienza anche tragica, anche drammatica e questo avvicinarsi a questa esperienza drammatica paga anche in termini di complicità.

    Forse il dono migliore che si può fare a questi pazienti borderline e alle persone traumatizzate in genere è dirgli: «Ecco, non ce la raccontiamo troppo!», stiamo un po’ più aderenti a quello che è veramente successo e che è dentro di noi. Valorizzare la complicità: io vedo che certi pazienti borderline ci richiamano continuamente a questa complicità e questo mi sembra un elemento molto importante.

     Io vi ho voluto proporre queste cose nel tentativo di creare un ponte tra i dati molto interessanti e affascinanti che sono emersi nella mattinata e lo sforzo che noi che siamo impegnati nei Servizi dobbiamo fare, per tradurlo in una certa misura anche in una prassi.

     Io sono convinto che questa questione del ponte tra aspetti neuropsicologici e psicoanalisi è ancora in gran parte da costruire, ma questa mattina forse abbiamo messo qualche punto fermo.


(*) La presente conferenza è stata trascritta da Cesare Romano. Le note non sono state condivise con l’autore per cui del loro contenuto è responsabile unicamente il trascrittore del testo. La maggior parte delle note rinviano a testi citati dal relatore e riportano i passi originali cui viene fatto riferimento nel testo della conferenza. Altre note suggeriscono possibili approfondimenti del tema affrontato indicando la fonte bibliografica di riferimento. Alcune note sono solo precisazioni relative a punti della registrazione poco comprensibili. Ho volutamente mantenuto il tono discorsivo della conferenza ed apportato solo lievi modifiche al testo, non volendo sacrificare la spontaneità e fluidità del testo a vantaggio di una costruzione sintattica più formale. 


[1] Secondo l’ipotesi Jacksoniana citata da Meares (2005), l’emergere del Sé necessita dell’integrità della corteccia prefrontale. Jackson formulò l’ipotesi che le strutture neurali e le funzioni che si sono sviluppate per ultime nel corso della filogenesi sono anche quelle più vulnerabili rispetto alle funzioni e alle strutture neurali più antiche che si sono evolute per prime. Secondo questa ipotesi, «le funzioni che coinvolgono l’area prefrontale, essendo le ultime ad evolversi, dovrebbero essere le prime ad essere perse o compromesse in seguito ad una lesione del sistema mente-cervello. In questo caso, lo sviluppo del Sé sarà di conseguenza deficitario» (Meares et al., “Un’ipotesi jacksoniana e biopsicosociale sulle manifestazioni dell’area borderline”. Vedi articolo in appendice al fascicolo). Da questo deficit Meares deduce una serie di sintomi dell’area borderline, quali il senso di vuoto e i comportamenti impulsivi e disadattativi. La corteccia prefrontale esercita anche un ruolo di controllo sull’espressione della memoria emotiva attraverso l’amigdala, e presiede anche alla regolazione affettiva. La disfunzione prefrontale rende conto di una molteplicità di sintomi del disturbo borderline.

[2] In Al di là del principio dl piacere (1920) Freud afferma che la questione del piacere e del dispiacere rappresenta la «plaga più oscura e inaccessibile della vita psichica» (p. 193). In questo saggio Freud si sofferma a lungo sul concetto di coazione a ripetere che aveva enunciato per la prima volta nel 1914 in Ricordare, ripetere, rielaborare, ove aveva affermato: «Il paziente non si libererà, finché rimane in trattamento, da questa “coazione a ripetere”: e alla fine ci si rende conto che proprio questo è il suo modo di ricordare» (OSF, vol. 7, p. 356). Riferendosi alle conseguenze del trauma Freud afferma che «la vita onirica delle persone affette da nevrosi traumatica ha la caratteristica di riportare continuamente il malato nella situazione del suo incidente, da cui egli si risveglia con rinnovato spavento. Ci si stupisce davvero troppo poco di ciò. Si pensa che il fatto che l’esperienza traumatica si imponga continuamente al malato, persino nel sonno, sia appunto una prova della sua forza: il malato sarebbe, per così dire, fissato psichicamente al suo trauma […] Tuttavia non mi risulta che nella vita vigile coloro che soffrono di nevrosi traumatica siano molto occupati dal ricordo del proprio incidente. Forse si sforzano piuttosto di non pensarci» (p. 199). Queste considerazioni conducono Freud a rivedere la teoria del sogno come appagamento di desiderio e ad ammettere che «in questa situazione anche la funzione del sogno, come molte altre cose, viene disturbata e deviata dai suoi scopi» (p. 199). In Al di là dal principio del piacere Freud descrive anche quella coazione a ripetere che si manifesta nelle persone sane e che farebbe pensare che queste persone siano «perseguitate dal destino o vittime di qualche potere “demoniaco”; ma la psicoanalisi ha sempre pensato che questo destino sia creato da costoro in massima parte con le loro stesse mani, e sia determinato da influssi che risalgono all’età infantile. La coazione che in essi si manifesta non è diversa dalla coazione a ripetere dei nevrotici, anche se queste persone non hanno mai mostrato i segni di un conflitto nevrotico che abbia dato luogo alla formazione di sintomi. Esistono così persone le cui relazioni umane si concludono tutte nello stesso modo: benefattori che dopo qualche tempo sono astiosamente abbandonati da tutti i loro protetti […] uomini le cui amicizie si concludono immancabilmente con il tradimento dell’amico […] persone i cui rapporti amorosi con le donne attraversano tutti le medesime fasi e terminano nello stesso modo, ecc. Questo “eterno ritorno dell’uguale” non ci stupisce molto se si tratta di un comportamento attivo del soggetto in questione e se in esso ravvisiamo una peculiarità permanente ed essenziale del suo carattere la quale debba necessariamente esprimersi nella ripetizione delle stesse esperienze. Un’impressione più forte ci fanno quei casi in cui pare che la persona subisca passivamente un’esperienza sulla quale non riesce a influire, incorrendo tuttavia immancabilmente nella ripetizione dello stesso destino» (Freud, Al di là del principio di piacere, OSF, 9, pp. 207-208).

[3] Il relatore si riferisce al seguente passo di Freud: «Chiamiamo “traumatici” quegli eccitamenti che provengono dall’esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Penso che il concetto di trauma implichi quest’idea di una breccia inferta nella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi. Un evento come il trauma esterno provocherà certamente un’enorme disturbo nell’economia energetica dell’organismo, e mobiliterà tutti i possibili mezzi di difesa. Nello stesso tempo, il principio di piacere in un primo momento è messo fuori combattimento. Non è più possibile evitare che l’apparato psichico sia sommerso da grandi masse di stimoli; sorge invece un altro compito, quello di padroneggiare lo stimolo, di “legare” psichicamente le masse di stimoli che hanno fatto irruzione nell’apparato psichico, in modo da potersene poi sbarazzare». (Freud, Al di là del principio di piacere, OSF, 9, p. 215).

[4] Il concetto di dissociazione non gode di una definizione univoca, e Meares ha osservato che sul piano clinico questo fenomeno è stato spesso trascurato, ed ha ricevuto nuova attenzione da quando il trauma è diventato oggetto di interesse della clinica. Meares definisce così questo concetto: «la dissociazione è la manifestazione, alla sua prima comparsa, di una sottile disorganizzazione del funzionamento cerebrale, ingenerata dall’effetto dirompente delle emozioni associate con l’evento traumatico […] L’elemento di maggior rilievo in questo stato è il disturbo a carico della memoria. Tuttavia, la dissociazione coinvolge anche cambiamenti dell’attenzione, in particolare quello che Janet definì “restringimento del campo di coscienza”. Esso, assieme ai disturbi della memoria, è una caratteristica tipica del fenomeno. Altre caratteristiche centrali sono la depersonalizzazione-derealizzazione, la discontinuità dell’esistenza personale e l’allucinosi» (Meares, Intimità e alienazione, Raffaello Cortina 2005, pp. 63-65). Marlene Steinberg (2006) afferma «che la dissociazione, in quanto parte della nostra risposta tipica al trauma, è una reazione pressoché universale di fronte a un evento che mette a repentaglio la vita e che le esperienze dissociative, lievi o moderate in persone altrimenti normali, sono tanto comuni quanto l’ansia e la depressione» (p. IX). Questa autrice cerca di sfatare il mito, purtroppo ancora diffuso tra gli psichiatri, che la dissociazione sia un fenomeno eclatante e piuttosto raro, e richiama l’attenzione sul fatto che esiste un continuum tra forme lievi di dissociazione che possono presentarsi in persone sane e le forme gravi e conclamate del disturbo dissociativo vero e proprio. Credo che noi psichiatri siamo ancora condizionati da una visione della dissociazione come manifestazione sintomatologica caratterizzata da fenomeni clamorosi per cui non siamo in grado di riconoscere le forme minori di dissociazione. Si potrebbe dire che la dissociazione ripeta la storia dell’isteria, che oggi non viene più diagnosticata perché siamo abituati a pensare l’isteria come un insieme di sintomi eclatanti e non siamo in grado di riconoscere le forme minori di isteria o il carattere isterico cui diamo oggi un’altra etichetta diagnostica. Un ulteriore fattore che influisce negativamente sul riconoscimento dei sintomi dissociativi è, a mio giudizio, da attribuire alla ancora insufficiente attenzione degli psichiatri sul fattore traumatico e alla difficoltà che ancora abbiamo ad indagare sulla storia di abusi fisici, emotivi e sessuli nell’infanzia dei nostri pazienti o a prendere in seria considerazione questi eventi traumatici come fattori eziologici significativi. Per approfondire il tema della dissociazione consiglio la lettura di Steinberg M. e Schnall M., La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali, Raffaello Cortina 2006. Il testo offre una esauriente descrizione dei cinque sintomi fondamentali della dissociazione e per ogni sintomo presenta un questionario diagnostico tratto dalla Steinberg Clinical Interview for Dissociative Disorders (SCID-D). La seconda parte del libro illustra alcune storie cliniche e affronta il problema della terapa.

[5] «Le manifestazioni della coazione a ripetere […] rivelano un alto grado di pulsionalità, e, quando sono in contrasto con il principio di piacere, possono far pensare alla presenza di una forza “demoniaca”» (p. 221). Freud illustra la coazione a ripetere attraverso la quale il bambino, nel famoso gioco del rocchetto, cerca di dominare il dispiacere per l’assenza della madre. «Ogni nuova ripetizione sembra rafforzare questo dominio che egli si propone di attuare» (p. 221).

[6] Sándor Frenczi non solo ha ripreso la teoria del trauma infantile di Freud ma l’ha sviluppata nel suo famoso intervento del 1932 al Congresso Psicoanalitico Internazionale di Wiesbaden intitolato Confusione di lingua tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il inguaggio della passione. In un articolo del 1929 intitolato Il bambino mal accolto e la sua pulsione di morte, Ferenczi rielabora alcune interpretazioni psicoanalitiche della malattia psicosomatica alla luce della pulsione di morte che Freud aveva presentato in Al di là del principio di piacere. Ferenczi fa riferimento a quelle «sensazioni di dispiacere come quelle che prova il bambino quando è strappato dal calore dell’ambiente materno; sensazioni che più tardi, secondo la legge della coazione a ripetere, devono essere continuamente rivissute» (Ferenczi, Opere, vol. 4, p. 45, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002). Ferenczi sottolinea che «i bambini accolti con durezza e senza affetto muoiono facilmente e volentieri, o meglio possono servirsi di uno dei tanti mezzi organici per un rapido decesso, ovvero, se sfuggono a questo destino, conservano un certo pessimismo e un tedio della vita». Ferenczi sostiene che, contrariamente alla comune credenza che le pulsioni di vita abbia il netto sopravvento nel neonato e decrescano con l’avanzare dell’età, il «lattante è molto più vicino alla non esistenza individuale di quanto non lo sia l’adulto, che ne è separato all’esperienza della vita. Scivolare all’indietro, verso l’inesistenza, potrebbe quindi essere, per i bambini, molto più facile. La “forza vitale” che resiste alle difficoltà della vita non è dunque poi così grande alla nascita e, a quanto pare, si consolida solo dopo una progressiva immunizzazione contro i danni fisici e psichici, garantita solo da un trattamento e un’educazione gestiti con tatto […] è nella maturità che la pulsione di vita potrebbe controbilanciare le tendenze distruttive […] Coloro che perdono così presto la voglia di vivere danno l’idea di esseri a cui faccia difetto la capacità di adattamento, simili a coloro che, nella classificazione freudiana, soffrono di una debolezza congenita di capacità vitale, con la differenza però che nel nostro caso l’aspetto congenito di tale debolezza è solo apparente, in quanto essa è conseguenza del trauma precoce. Naturalmente resta poi da risolvere il problema di cogliere le sottili differenze tra i sintomi nevrotici dei bambini maltrattati fin dall’inizio e quelli dei bambini accolti dapprima con entusiasmo e con manifestazioni appassionate d’amore e poi “lasciati perdere”» (Ferenczi, Opere, vol. 4, pp. 47-8 ).

[7] Su questo tema del tempo integro questa parte, che nella registrazione della conferenza risulta confusa, con alcune considerazioni di Meares (2005), che è l’autore cui il dr. Correale si riferisce in maniera privilegiata. «Ritengo che il tipo di memoria da cui dipendono il sé e l’intimità riguardi la rievocazione di episodi del proprio passato. C’è una “duplicità” in questa condizione. Si vive nell’immediato presente , e al tempo stesso si è consapevoli di territori diversi dell’esperienza, che appartengono a un altro tempo della propria vita. Nel caso della memoria traumatica, tale duplicità viene persa. Non si riesce a comprendere l’origine di quella sensazione di disturbo. Non si riesce a recuperare un passato; l’esperienza è collocata nel presente. In altri termini, è dissociata» (Meares, Intimità e alienazione, Raffaello Cortina, 2005, p. 5). Per intimità Meares intende quella forma di dialogo con sé stessi, o anche con un altro, che è in intima connessione con la propria vita interiore ed è carico di risonanze emotive.

[8] Gli ultimi tre paragrafi non appartengono al testo originale della conferenza, e sono stati inseriti per sostituire parti mal udibili alla registrazione. Ho tratto i paragrafi da: Correale A., Alonzi A.M., Borderline, Borla Editore, Roma 2005, p. 127.

[9] Questo concetto è estremamente importante, poiché rovescia la concezione in gran parte ancora oggi dominante, anche in ambito psicoanalitico, che la perversione consista nell’usare l’altro come un oggetto. Nell’ambito delle perversioni sessuali questo nuovo modo di considerare la perversione è stato sostenuto da Sergio Benvenuto che ha affermato: «In realtà, la perversione non è usare l’altro come oggetto, ma usare l’altro come soggetto […] la soggettività dell’altro è una componente essenziale della maggioranza degli atti perversi». Benvenuto S., Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 34.

[10] Riporto qui una breve definizione del compito terapeutico legato al tema delle esperienze traumatiche così come è stato definito da Meares: «Memorie traumatiche, circondate da sistemi protettivi, e che in modo intermittente travolgono il senso di continuità dell’esistenza, si presentano in varie forme, come attività sessuali perverse, comportamenti suicidiari, liti coniugali frequenti. Aiutare queste persone a integrare queste modalità “inconsce” dell’esperienza all’interno del Sé come flusso di coscienza è l’obiettivo centrale di gran parte del lavoro dello psicoterapeuta». Meares, Intimità e alienazione, Raffaello Cortina, 2005, p. 7.

[11] Il relatore si riferisce a Russell Meares, autore del volume Intimità e alienazione. Il Sé e le memorie traumatiche in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano, 2005, già citato.

[12] Poiché su questo punto la registrazione era confusa, ho integrato questo punto deducendo alcune considerazioni sul tema del riposo dal testo di Correale, Area traumatica e campo istituzionale, Borla 2006, facendo riferimento al cap. 9 intitolato: “Disturbo borderline: il riposo impossibile”. Un altro riferimento al tema del riposo è contenuto nella conferenza di Correale, “Il disturbo borderline e la terapia di comunità”, Psichiatria generale e dell’età evolutiva, 43, 1-2, 2006, pp. 43-72.

[13] «Il senso del Sé dipende dal succedere delle cose […] Il Sé, da questa prospettiva, non è niente di concreto o solido, non è una parte di noi come lo sono le ossa o i muscoli. Semplicemente, è un cantiere di esperienze interiori in perenne cambiamento, una sorta di sottile trama, o per usare un termine wolffiano, di “bagliore”, che può scomparire, lasciandoci nel nulla. La continuità del senso di esistere, quindi, si rivela sull’orlo di un vuoto potenziale. La minaccia di questo vuoto incombe in particolar modo sulle persone il cui sviluppo del Sé è stato compromesso da circostanze ambientali traumatiche. L’attività mentale che è alla base del flusso di coscienza sembra essersi solo minimamente sviluppata. Il Sé è stentato e fragile; a volte può scomparire, e lasciare una sensazione dolorosa, a volte perfino terrificante, di vuoto stagnante. Spesso è descritta come “un buco nero”». Meares, Intimità e alienazione, cit. p. 16

[14] Nell’ambito dell’indirizzo cognitivo è stata messa a punto una tecnica psicoterapeutica basata sulla mentalizzazione, vale a dire sull’acquisizione della capacità di percepire correttamente i propri stati mentali e quelli degli altri. Un manuale che fa riferimento a questa tecnica terapeutica è quello di Bateman A. e Fonagy P., Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Psicoterapia con il paziente borderline, Raffaello Cortina 2006. Nell’ambito delle neuroscienze si è arrivati recentemente ad una nuova acquisizione che ha portato a scoprire la base neurale della capacità di comprendere la mente, gli stati emotivi e l’intenzionalità degli altri. Giacomo Rizzolatti e il suo gruppo di ricerca al Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Parma hanno scoperto dei neuroni diffusi in importanti regioni di entrambi gli emisferi cerebrali che hanno chiamato neuroni specchio, i quali costituirebbero la base neurale dell’empatia, della capacità di comprendere le azioni, le intenzioni e gli stati emotivi di un’altra persona. Sulla base di questa recente scoperta si potrebbe presumere che traumi ripetuti compromettano la funzionalità dei neuroni specchio determinando una compromissione della capacità di comprendere la mente, l’intenzionalità e le emozioni altrui. L’ ipotesi di una disfunzione del sistema dei neuroni specchio è stata attualmente avanzata per spiegare il grave deficit empatico del paziente autistico (Su questo tema rinvio all’articolo di Ramachandran V. S. e Oberman L., “Specchi infranti. Una teoria dell’autismo”, in le Scienze, n. 460, dicembre 2006).

Per un approfondimento dell’argomento consiglio la lettura del testo di Rizzolatti G. e Sinigaglia C., So quel che fai, Raffaello Cortina, 2006. Per chi volesse accostarsi al problema dei neuroni specchio attraverso una lettura divulgativa consiglio i seguenti articoli: Rizzolatti G., Fogassi L. e Gallese V.: “Specchi nella mente”, le Scienze, n. 460, dicembre 2006, e Aglioti S.M. e Avenanti A.: “Risonanze e imitazioni”, Mente & Cervello, n. 23, anno IV, settembre-ottobre 2006. Per chi volesse accostarsi per la prima volta al tema affascinante delle neuroscienze consiglio il testo di piacevole lettura di uno dei maggiori neuroscienziati, Ramachandran S. V., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori 2004.


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