Premessa
È fondamentale, per una buona riuscita del trattamento del disturbo borderline
di personalità, che tutto il gruppo dei curanti condivida il modello
teorico e clinico di riferimento. Molte discussioni, infatti,
e molti contrasti all’interno dell’équipe, derivano da una non
condivisione dei concetti generali relativi alla natura del disturbo.
Le più frequenti divisioni si formano tra coloro che tendono a dare più
importanza alla dimensione di bisogno e di carenza di questi pazienti
e coloro che tendono invece a dare maggiore importanza alla dimensione
aggressiva e distruttiva. Speriamo di dimostrare che l’approccio
teorico e clinico proposto in questa sede permette una buona sintesi
di questi opposti.
La teorizzazione che proponiamo, che si basa prevalentemente su contributi
psicoanalitici, della psicologia evolutiva, delle neuroscienze
che studiano il trauma e dell’osservazione clinica diretta, si
fonda su tre concetti fondamentali: il trauma, la mentalizzazione
e il senso di vuoto. Tutte le linee terapeutiche proposte possono
essere viste come articolate sul trattamento di questi tre punti.
Il trauma
Intendiamo per trauma, non tanto un singolo evento, ma una relazione predominante
nei primi anni di vita del futuro paziente, caratterizzata dal
fatto che la figura dell’adulto determina, col suo stile, col
suo modo di fare, col suo linguaggio, insomma con la sua attitudine
generale verso il bambino e verso il mondo, una “emozione soverchiante”
nel bambino, che tende a ripetersi nel tempo e che, pur essendo
in qualche modo prevedibile, si presenta sempre in ogni momento
come eccessiva e travolgente.
Questa emozione soverchiante consiste essenzialmente in un misto di paura,
rabbia, sgomento, ed eccitamento, e risponde a atteggiamenti invadenti,
seduttivi, imprevedibilmente penetranti ed intrusivi e in genere
a tutti quegli atteggiamenti dell’adulto che tendono a far sentire
il bambino come sovrastato da un’emozione, che l’adulto determina
in lui e che il bambino non può né contenere né elaborare. È tipico
dell’emozione soverchiante indurre un senso di allagamento, di
incontenibilità, di sopraffazione inelaborabile, che fa vivere
al bambino stesso, in modo affettivo ma non intellettivo, sentimenti
di morte, di discontinuità dell’esistenza, di inermità, e, di
conseguenza, di angoscia incontrollabile, simile a quanto nella
teorizzazione psicoanalitica viene definito come cambiamento catastrofico.
Poiché tale sensazione di angoscia non è sostenibile altro che per pochi
momenti, il futuro paziente attiva, allo scopo di controllare
l’angoscia connessa all’emozione soverchiante, una gamma di risposte,
che possono essere sostanzialmente di tre tipi, più o meno distinti
o intrecciati l’uno con l’altro:
1) Uno stato di allarme (iperarousal). Consiste in un atteggiamento
di eccessiva vigilanza, di allarmata attenzione a tutto ciò che
viene detto o fatto nell’ambiente circostante, in una tendenza
ad aspettarsi che possa, in ogni momento, verificarsi una situazione
rischiosa, in una tendenza a “monitorare” le parole e i gesti
dell’altro in maniera eccessiva, nel tentativo di cogliere in
essi possibili elementi di rischio e di pericolo.
Vanno comprese, nella valutazione di possibili rischi, sfumature aggressive,
mancanza di empatia, atteggiamenti leggibili come seduttivi, gesti
o parole di non facile ed immediata interpretazione.
Questo stato di allarmata ipervigilanza è il principale responsabile della
fatica che prova il terapeuta con questi pazienti, perché il terapeuta
sente, con stanchezza e preoccupazione che, come si dice nei film
polizieschi, “tutto quello che dici, potrà essere usato contro
di te”.
È importante a questo fine non scambiare la ipervigilanza del paziente
con una modalità puramente aggressiva, ma tener conto che essa
costituisce il modo con cui un organismo potenzialmente feribile
si difende, con attenzione eccessiva dalla possibilità di ricevere
ferite ulteriori.
Le neuroscienze hanno dimostrato, tramite lo studio dei potenziali evocati,
che il borderline tende a vivere ogni stimolo sensoriale (visivo,
acustico, tattile) come particolarmente intenso, come se sentisse
un apparecchio radio tenuto a volume sistematicamente troppo alto.
2) La dissociazione. Si intende per dissociazione una parziale o
totale alterazione dello stato di coscienza, consistente in un
restringimento dello stato di coscienza stesso, che viene vissuto
dal soggetto come un senso di parziale o totale depersonalizzazione.
È importante concepire la dissociazione come uno spettro che può andare
dalla sensazione, nei casi più lievi, di essere catturati da
una emozione più forte di noi che ci trascina, travalicando le
nostre possibilità di controllo, a casi più gravi, in cui il soggetto
ha la sensazione di funzionare in modo quasi automatico, in uno
stato che si avvicina quasi ad uno stato oniroide per giungere,
nei casi ancora più gravi, a veri e propri sdoppiamenti della
personalità, come nel disturbo dissociativo di personalità.
La dissociazione va concepita non come una difesa, ma come una disintegrazione
di attività superiori maggiormente integrate della coscienza che,
sotto l’effetto del trauma, vanno incontro ad una parziale o totale
obliterazione per lasciare liberi modelli di funzionamento mentale,
solitamente disposti in uno strato gerarchico inferiore (secondo
il modello di Hughlings Jackson ripreso da Meares).
Tali stati dissociativi sono sempre consecutivi ad esperienze traumatiche
acute e possono esibire tratti di impulsività, con azioni improntate
ad emozioni esageratamente intense, che possono portare o ad un
aumento della tensione e sensibilità, o a una sua drastica diminuzione.
Nel primo caso, il soggetto ricerca comportamenti che possono abbassare
l’eccessiva tensione (sostanze, acting, comportamenti sessuali,
ricerca frenetica di avventure o di emozioni nuove), nel secondo
caso può ricorrere a comportamenti autolesivi, che, attraverso
la ricerca del dolore, ristabiliscono la sensibilità resa ottusa
dai processi di dissociazione.
Molte delle cosiddette crisi del borderline possono essere lette secondo
questa sequenza: un atto traumatico attiva una condizione di angoscia
e di catastrofe; l’angoscia e la catastrofe, a loro volta, attivano
uno stato dissociativo, nel corso del quale il paziente si fa
trascinare da violente esplosioni di emozioni, che possono dare
adito a litigi pericolosi, atti clamorosi, comportamenti lesivi
per la vita propria o altrui, e il cui tentativo di controllo
comporta rischi ulteriori, come assunzione di sostanza o sessualità
promiscua. Mostrare al paziente questa successione, è fondamentale
perché lentamente si instaura una capacità di evitamento di tale
crisi. L’unico modo per controllare gli stati dissociati è, infatti,
di prevederli.
Quando sono presenti, sono inutili tentativi di spiegazione, ma sono necessari
atteggiamenti di protezione, conforto, ascolto degli sfoghi, e
dove indispensabile, controllo contenitivo o farmacologico o istituzionale
(vicinanza, rassicurazione, solo in casi rari ricovero).
3) L’identificazione con l’aggressore. In base a quanto detto finora,
si può ipotizzare che le esperienze traumatiche originarie lascino
nel futuro borderline una traccia profondissima – se così si può
dire, un pezzo di eternità nel flusso psichico -. Questo significa
che ogni volta che l’adulto incontrerà nella sua vita situazioni
che possono anche lontanamente assomigliare al trauma originario,
risponderà a tali situazioni con le modalità che abbiamo detto.
In particolare, egli o ella tenderanno ad assumere la posizione non già
della vittima ma del persecutore, insomma del più forte, o oscilleranno
continuamente fra posizioni di debolezza, che mostreranno al mondo
come richiesta di testimonianza per l’ingiustizia subita o posizione
di forza, in cui controlleranno il rischio infliggendo all’altro
quello che l’altro potrebbe infliggere loro.
Ne deriva che questi pazienti albergano dentro di sé un’identificazione
parziale, ma costante con una figura violenta e aggressiva, che,
col suo comportamento, tenderà a tenere sotto controllo il rischio
di divenire vittima diventando stabilmente aggressore.
Questo meccanismo di difesa è relativamente costante, non coincide con
la dissociazione, ma può essere favorito da uno stato di dissociazione
e tende ad essere la più clamorosa espressione della tendenza
del borderline a ripetere.
Si deve aggiungere che il borderline non è soltanto tendente a reagire
ai traumi attuali con questa modalità, ma che certe volte tende
addirittura a cercare i traumi, che esiste cioè in lui o in lei
una sorta di traumatofilia, che nasce dal bisogno di interrogare
il trauma, riattivandolo, per venirne a capo.
Mentalizzazione
Fonagy definisce
la mentalizzazione come la capacità di attribuire all’altro soggetto
stati mentali, sentimenti, motivazioni, ricordi, insomma una vita
interiore. Presupposto di questo concetto è che, sotto l’effetto
dell’esperienza traumatica, il borderline perda la capacità di
attribuire all’altro funzioni psichiche elevate.
Così come il
trauma tende a obliterare le funzioni superiori della coscienza
liberando livelli mentali iperaffettivi e automatici, così, anche
per l’altro, il nostro paziente tende a pensare che non sia dotato
di funzioni coscienziali superiori, ma soltanto di impulsi semplici,
buoni o cattivi, seduttivi o aggressivi, insomma meccanici e acausali.
L’altro diventa buono o cattivo, bello o brutto, amico o nemico,
senza sfumatura, e più che altro senza motivi apparenti. È diventato
cattivo. È un uomo malvagio. È una donna infida e traditrice,
e così via.
La tendenza
più volte indicata dalle correnti psicoanalitiche, che si ispirano
alla teoria degli oggetti interni verso la scissione, può trarre
origine da questo atteggiamento. È compito essenziale quindi della
terapia fornire continuamente, al paziente, strumenti per la conoscenza
della mente dell’altro al fine di superare questi momenti di inadeguata
mentalizzazione.
Il senso di vuoto
Il senso di vuoto si esprime, a livello soggettivo, come inquietudine,
mancanza di pienezza, insoddisfazione, una malinconia senza oggetto,
secondo quella che è stata definita da più parti come una depressione
atipica. Non c’è però in questa depressione la nostalgia di un
oggetto perduto, e neanche l’impossibilità di fare un lutto di
un oggetto perduto, come avviene nella depressione classica, ma
il dolore e la rabbia di non avere mai incontrato un oggetto adeguato,
di sentire che qualche esperienza fondamentale è mancata e che
quindi la nostalgia di un amore mai trovato è in realtà l’aspirazione
a incontrare un amore che non si sa se mai si incontrerà, e di
cui comunque non si conosce il linguaggio e non si ha mai avuto
modo di sperimentare.
Se si volesse usare il linguaggio di Ferenczi, potremmo dire che quella
del borderline è stata un’infanzia senza tenerezza, in cui l’eccitamento,
la seduzione, la rabbia hanno preso il posto di un piacere quieto
e riposante, di quello che potrebbe essere definito un dolce abbandonarsi.
La violenza delle emozioni ha creato un’ipertrofia
dell’emozioni discrete, a scapito di un fondamento di emozioni
basiche o vitali, come il senso di calma, il quieto riposarsi,
un tranquillo abbandonarsi al flusso degli eventi, insomma un
sentire che il fiume in cui siamo può essere una corrente protettiva
e non solo travolgente.
È fondamentale compito del terapeuta usare un linguaggio, che permetta
in terapia l’instaurazione di momenti in cui si possa fare esperienze
di questo tipo di emozioni e che tali momenti si stratificano
in modo tale da riempire il senso di vuoto di cui parlavamo. Si
tratta quindi di un senso di vuoto che riguarda il senso di Sé,
che viene avvertito come mancante di un liquido lubrificante interno,
dato dal senso di tenerezza, che non è stato presente nei primi
rapporti.
Linee per un trattamento
I modelli prevalenti allo stato attuale tendono a strutturarsi sul contenimento
delle prime fasi, quando prevalgono comportamenti impulsivi all’insegna
della dissociazione e sull’attivazione della capacità di mentalizzare,
al fine di evitare che i rapporti umani sbocchino con facilità
in situazioni di tipo violento e persecutorio. Il trattamento
del vuoto viene in genere preso in considerazione in una seconda
fase, quando i comportamenti impulsivi sono stati riportati sotto
controllo.
Se dovessimo dividere in fasi il trattamento secondo i modelli prevalenti,
potremmo individuare almeno tre grandi fasi.
1) Una prima fase in cui si mostra al paziente come mentalizzare,
facendogli vedere che la paura e l’eccessiva reattività impediscono
di valutare l’effettiva soggettività dell’altro e i suoi reali
intendimenti. Questa prima fase viene attuata prevalentemente
attraverso l’attivazione di un rapporto individuale importante,
che accolga un investimento significativo su di sé, di un’attivazione
di un gruppo, almeno una volta a settimana, in cui l’attività
mentale è discussa con altri pazienti sofferenti dello stesso
problema e della messa in campo di figure capaci di offrire un
aiuto, anche giornaliero, nel momento in cui viene richiesto.
Contemporaneamente, vengono messe in campo attività dirette alla
gestione dei rapporti familiari, che si teme stiano perpetuando,
anche al momento attuale, le modalità traumatiche tipiche dei
primi periodi della vita.
2) Una seconda fase, in cui si tende a portare alla luce l’esperienza
traumatica originale. Questa fase è estremamente importante, ma
delicata, perché l’attivazione dei ricordi relativi al trauma
originario, se effettuata troppo presto, può indurre fenomeni
dissociativi o fortemente ansiosi. Questa fase è gestita a livello
individuale con un terapeuta fortemente coinvolto nel rapporto.
In questa fase può essere utile una co-terapia, perché l’investimento
emozionale può essere così forte, da portare a brusche interruzioni
o rotture improvvise.
3) Una terza fase in cui si prende in considerazione la depressione atipica.
In genere, in questa fase, il paziente non presenta più acting
pericolosi, descrive una sua insoddisfazione, un penoso convincimento
sulla precarietà dei rapporti umani, una tendenza inquieta e disforica
ad arrabbiarsi, una nostalgia verso un livello “poetico” della
vita al tempo stesso invocato e preso in giro, ricercato e sbeffeggiato.
In questa fase è fondamentale un rapporto psicoterapico individuale,
che può essere la continuazione dei precedenti, o essere costruito
ex novo.
La nostra proposta quindi consiste nell’integrare i modelli esistenti,
secondo una successione più o meno di questo tipo:
1) Una prima fase, che potremmo definire fluida, in cui si mettono in
campo un referente col compito di instaurare il rapporto principale,
caratterizzato “dall’avere in mente quotidianamente i movimenti
del paziente”, a un piccolo gruppo omogeneo, capace di fornire
aiuto nella quotidianità e di spingere il paziente a conoscere
sempre meglio cause ed evoluzioni delle sue crisi e infine, laddove
sia possibile, un gruppo terapeutico in cui discutere con altri
pazienti i problemi comuni. Potremmo definire questa fase la fase
della mentalizzazione, che non è molto diversa dal modello dell’approccio
dialettico-comportamentale, in quanto anch’esso teso a fornire
al paziente strumenti per un attraversamento non traumatico dei
rapporti umani, in particolare colla figura traumatica di riferimento.
In questa fase può essere necessario valutare la necessità di un intervento
di una comunità, laddove la situazione traumatica familiare sia
incontrollabile. Va tenuto conto, però che, in linea di massima,
l’intervento di una comunità presenta dei rischi di regressione,
che vanno attentamente valutati. Se eseguita correttamente, l’attività
terapeutica di questa fase comporta, in capo a circa due anni,
la quasi totale scomparsa dei fenomeni impulsivi e la venuta in
primo piano di problemi affettivi e relazionali.
2) Una seconda fase che potremmo definire della ricostruzione del trauma,
in cui l’attività del gruppo passa in secondo piano e viene in
primo piano l’attività di uno o due terapeuti, che devono condurre
il paziente verso la costituzione di un collegamento fra traumi
pregressi e traumi attuali.
3) La terza fase, che potremmo definire del fronteggiamento del vuoto,
comporta in genere il concentrarsi del lavoro su di una figura
terapeutica e la quasi coincidenza del trattamento del borderline
con le caratteristiche di una psicoterapia individuale.
Non c’è alcun dubbio che questa divisione sia estremamente schematica,
che le tre fasi tendano a sovrapporsi, e che ci possano essere
ritorsioni e slittamenti, ma abbiamo pensato di proporla perché
ha il merito, secondo noi, di stabilire una stretta connessione
fra problemi teorici e modalità cliniche di intervento.
È chiaro che nelle istituzioni la prima fase assume un’importanza cruciale.
È lì infatti che si giocano l’instaurazione di un rapporto di
fiducia, che il paziente e i suoi familiari vedono attivarsi dei
miglioramenti chiaramente osservabili, e che il gruppo può programmare
i passi del suo progredire su una base osservativa sicura. La
seconda e la terza fase richiedono poi operatori molto motivati,
esperti nel trattamento dei borderline, che non si spaventino
del potente coinvolgimento emotivo, che questi pazienti richiedono.
Il singolo terapeuta e il gruppo istituzionale
Tutta l’impostazione che abbiamo proposto si basa su due pilastri fondamentali:
le caratteristiche del singolo terapeuta e quelle del gruppo dei
curanti.
Il singolo terapeuta si articola in tre funzioni.
1) Il referente è la figura che assume su di sé l’investimento emozionale
ed affettivo principale. Può cambiare nel corso del tempo, ma
è fondamentale che fin dall’inizio venga individuato chi e come
deve svolgere questa funzione.
2)Il case manager. È la figura che coordina i vari interventi specialmente
nei casi in cui sono implicate più istanze istituzionali (SPDC,
centri diurni, comunità, residenze, interventi familiari, inserimenti
lavorativi, aiuti economici, collegamenti con la giustizia e coi
servizi con le tossicodipendenze).
3) Il responsabile del servizio, che si assume la responsabilità medico
legale della gestione del caso. È fondamentale che queste tre
figure siano tra di loro collegate ma distinte e condividano a
grandi linee il progetto terapeutico.
Il gruppo istituzionale deve essere un gruppo omogeneo, di non più tre
o quattro persone, di varie professionalità, che condividano un
modello comune e che ogni volta che c’è un contrasto siano in
grado di affrontarlo senza infingimenti, ma anche senza lacerazioni
e contrapposizioni violente. Questo aspetto è forse il più difficile
da realizzare in campo istituzionale, ma è l’unico in grado di
garantire un’evoluzione efficace del trattamento.
In particolare, il piccolo gruppo deve essere a conoscenza, almeno a
grandi linee, del lavoro che fa il referente, e non ostacolarlo,
ma appoggiarlo e in caso di contrasti, di affrontarli in un clima
di confronto aperto e franco. Per altro, il referente deve essere
in grado di chiedere al gruppo aiuto quando si sente sopraffatto,
senza sentire che questo provochi attacchi o colpevolizzazioni.
La condivisione di un modello comune è garanzia di omogeneità, ma è importante
anche che, all’interno del piccolo gruppo, l’omogeneità sia garantita
da una certa affinità anche personale fra i membri del piccolo
gruppo o in mancanza di questa, almeno di una certa fiducia e
di un rispetto reciproco: il famoso lavoro di squadra, che consiste
nel fare un passo indietro, quando si deve tener conto dell’attività
di un altro membro del gruppo, ma al tempo stesso di criticare
senza paura di distruggere.
Infine è importante che l’intera équipe condivida, almeno a grandi linee,
un modello comune e sia in grado di collaborare col piccolo gruppo
e coi referenti quando sia necessario, senza sentirsi espropriata,
ma anche senza deleghe eccessive nei loro confronti.
Siamo convinti che un modello integrato di questo tipo, possa portare
a successi terapeutici molto importanti e che l’attività epidemiologica
e di ricerca dei prossimi anni debba essere diretta a valutare,
con precisione e rigore, l’efficacia delle linee di trattamento
che abbiamo proposto.