Caro Bollorino,
sono stato spinto a scrivere questa
lettera, a te e ai lettori di Pol.it, da molte riflessioni,
suscitate in me dalla partecipazione ad alcuni eventi
importanti, che hanno caratterizzato il mondo della psichiatria
italiana in questi ultimi tempi. Sto pensando, in particolare,
alle Giornate Ascolane del maggio 2007 e alla giornata
organizzata dal Ministro della Salute a Roma su “Le relazioni
che curano”.
Entrambi i momenti, come d’altronde
molti altri in questo periodo, hanno visto confluire molti
interventi e molte opinioni, provenienti da varie parti d’Italia
e da diverse scuole scientifiche e di pensiero. Tra tutti
i temi, però, ho creduto di individuare un filo conduttore,
che mi ha fatto condensare nella mente una serie di pensieri
che desidero fortemente comunicare.
Un primo punto di questo filo conduttore
mi sembra quello della stigma, inteso come quell’atteggiamento
mentale, purtroppo ancora molto diffuso, che non si limita
soltanto, a tendere ad allontanare dalla scena pubblica le
persone affette da disturbi mentali, ma si spinge purtroppo
fino a offuscare le capacità di giudizio nei confronti di
queste persone, accecando e ostruendo la possibilità di comprensione,
di identificazione e di empatia.
Ho spesso pensato come, spesso, il
disturbo mentale stimoli una specie di behaviourismo inconscio,
un comportamentismo semplificato e semplificante, anche in
persone di buona volontà, intendendo per comportamentismo,
non tanto la scuola di pensiero, ma un atteggiamento mentale,
che tende a valutare gli esseri umani esclusivamente sulla
base delle loro azioni e del loro comportamento. Può essere
presente comprensione, altruismo, protezione, ma non capacità
di identificazione, quell’appassionato desiderio di vedere,
di osservare il mondo con altri occhi, che la parte migliore
di una certa fenomenologia e di una certa psicoanalisi, ci
hanno insegnato. Trovo che questa visione comportamentistica
inconscia – valutare una persona soltanto per quello che fa
e non anche per quello che prova, sente o sperimenta – costituisca
un effetto dello stigma altrettanto grave e drammatico di
un’attiva esclusione sociale e affettiva.
Il secondo punto o nodo del filo
conduttore di cui sto parlando, cui sono stato spinto a pensare,
è quello del disturbo borderline, inteso non solo come uno
specifico disturbo della personalità, ma come il prototipo
di un tipo di giovane, uomo o donna, perseguitato, al suo
interno, da un senso profondo di inquietudine, precarietà
e insoddisfazione e che cerca nell’azione impulsiva e incontrollata
un tentativo di alleggerire questo senso interiore di vuoto,
assenza di finalità, mancanza di senso, ricorrendo a comportamenti
eccitanti, a rituali o schemi sociali stereotipati – il maschilismo,
la concorrenzialità sfrenata, l’adesione fideistica a bande,
spesso a contenuto quasi anti-sociale – e infine all’abuso
di sostanze. Il borderline, insomma, come spia di un disagio
giovanile diffuso, tipico del nostro tempo, che punta tutto
sulla soddisfazione immediata, sull’abolizione e negazione
della funzione costruttiva del tempo, inteso sia come memoria,
che come progettualità verso il futuro, sullo svincolamento
da un’autorità generazionale, che non riconosce più, ma di
cui sente nel fondo una profonda nostalgia. Vorrei ora arrivare
all’affermazione che mi sta più a cuore e che deriva dalla
saldatura tra loro dei due punti o nodi che ho toccato in
un unico filo conduttore: lo stigma e il borderline, inteso
come metafora concreta del disagio di una situazione giovanile.
Non si può pensare che, nel presente momento storico, lo stigma
più grave, più violento, più cieco, sia rivolto proprio verso
questi aspetti borderline della situazione giovanile?
Io sono convinto che la lotta perché
tutte le persone affette da disturbi di tipo psicotico partecipino
a pieno diritto alla vita della società civile sia fondamentale
e sono convinto che ogni sforzo in questo senso sia importante
e ricco di implicazioni, non solo etiche, ma anche scientifiche
e umane. Ma per un’eccessiva, anche se comprensibile e anche
eticamente condivisibile, concentrazione su questo punto,
non rischiamo di farci, per così dire, troppo catturare dal
tema della psicosi e dimenticare così, che, accanto agli psicotici,
vivono moltissimi giovani sofferenti, che noi cataloghiamo
come disturbi del carattere, e che sono di fatto profondamente
emarginati, lontani dai servizi, sfiduciati nella sanità pubblica,
spesso preda dell’abuso di sostanze o di una piccola malavita,
che può determinare un’emarginazione sociale altrettanto grave
della delinquenza vera e propria?
Dall’abuso di sostanze si considera
sempre più il problema di ordine pubblico, peraltro importante
e ineliminabile, e sempre meno la questione scientifica e
sociale che ne è alla base. D’altro canto, il disturbo borderline
è ormai sinonimo di persona fastidiosa e violenta, che viene
spesso palleggiata dai servizi finché alla fine qualcuno non
possa più rinviarne la delega.
Peraltro, i servizi psichiatrici
tendono a suddividersi in piccoli gruppi di professioni, che
procedono in parallelo, processo di per sé portatore anche
di elementi positivi. Ma, per disturbi di questo tipo, sono
necessari gruppi integrati, collaborazione tra servizi, forte
intreccio tra medicina e psichiatria, stretta interazione
tra livello psicoterapico, sociale, riabilitativo e medico.
Io sono convinto, infatti, che la
grande forza, l’idea-guida, che i servizi hanno costituito
in questi anni, sia data proprio dall’integrazione tra momento
individuale della cura e momento collettivo o gruppale. Da
un lato, l’incontro a due, nell’intimità preziosa e irripetibile
del rapporto preferenziale e privilegiato col proprio operatore
di riferimento. Dall’altro, l’apprendimento di forme varie
e articolate di rapporto sociale, nelle residenze, nei centri
diurni, nei gruppi di auto-aiuto, nelle innumerevoli forme
della riabilitazione. Ognuno dei due momenti senza l’altro
resta parziale e il lavoro d’équipe ne costituisce la sintesi,
unica e insostituibile.
Inoltre, credo che un merito storico
indistruttibile di Basaglia sia costituito dal fatto, che
combattendo lo stigma sulla psicosi, egli ci ha costretto
a reintegrare dentro di noi il “negativo” che la psicosi rappresenta:
intendendo per negativo il problema ontologico, come direbbe
Ballerini, che la psicosi pone a tutti noi: la presenza della
realtà, il nostro contatto con essa, la possibilità di credere,
addirittura, che una realtà esista. L’idea di Basaglia era
che chi si pone in fondo all’animo questi problemi, sia una
persona più ricca, più piena e più completa, perché porsi
col nostro psicotico il problema della realtà e del significato
dell’esistenza propria e degli altri, significa aprirsi al
mondo e contestare autorità false, luoghi comuni e posizioni
stereotipate e mistificanti. E di questo, dovremmo, per così
dire, “ringraziare” gli psicotici.
Ma adesso, le cose sono ulteriormente
cambiate. Ora i problemi si sono allargati e concernono non
soltanto un senso di fallimento dell’identità, lo statuto
della “presenza” nel mondo, la messa in discussione di una
realtà rigida, che lo psicotico ci costringe a interrogare,
un’autorità che ci spinge a decifrare.
Ora l’identità è diffusa e proteiforme
e la realtà sembra essere messa in discussione, non nella
sua presenza, ma per il suo darsi solo come consumo, oggetto
d’uso, rapidissimo usa e getta per un piacere immediato e
transitorio. La nostra società non è più francamente autoritaria,
ma subdola nel proporre un piacere universale, inteso come
obiettivo indiscutibile, e la valorizzazione di un’identità
gruppale e transitoria, per coprire un vuoto di idee, di progettazione
e in fondo anche emozionale. Io credo che i borderline costituiscano
allo stesso tempo la denuncia e la caricatura di questa situazione
giovanile, il massimo della adesione e paradossalmente il
massimo della ribellione a questo mondo, che ai giovani viene
proposto: come se il comando “sii giovane!”, “sii forte!”,
“sii bello”, “goditi la vita” e non pensare a nulla, al tempo
stesso li affascinasse e li terrorizzasse.
Di fronte a una situazione di questo
tipo, dobbiamo ancora pensare che la psicosi sia tuttora il
nostro unico problema? O non dobbiamo pensare che, accanto
alla situazione drammatica degli psicotici cronici e degli
Ospedali Psichiatrici Giudiziari, si profili la situazione,
altrettanto drammatica, di migliaia di giovani, pressoché
abbandonati a se stessi, che si trovano di fronte SERT impoveriti
di risorse e servizi psichiatrici spaventati dalle loro intemperanze
o asfissiati dal fatto che le già scarse risorse sono inevitabilmente
già tutte assorbite dal trattamento degli psicotici cronici?
Vorrei concludere questa mia lettera,
colla proposta che il disturbo borderline sia considerato
come una delle priorità dei progetti di salute mentale, certo
come oggetto di studio, scientifico ed epidemiologico e non
come apertura di centri specializzati, almeno finché dell’argomento
non si sia raggiunta una conoscenza molto più approfondita,
e che si instaurino, in modo più ampio possibile, osservatori
e centri di studi, dislocati nel territorio, che permettano
agli operatori, impegnati con questa patologia, di sentire
che le istituzioni sorreggono, appoggiano e addirittura incoraggiano
i loro sforzi per orientare questi giovani a rischio di dimenticanza
o addirittura di criminalizzazione.
Sono consapevole del fatto che il
problema principale è quello delle scarse risorse dei servizi,
ma ritengo che proposte come questa – centrata maggiormente
su un momento di studio e di approfondimento che di incremento
di attività – siano compatibili colle attuali potenzialità
e comunque possano contribuire a mettere in moto, laddove
sia possibile, progetti innovativi orientati in questa direzione.
Sono molto desideroso di conoscere
il tuo parere e quello di altri colleghi, lettori e no, di
Pol.it, su questi temi.
Un cordiale saluto e un grazie di
cuore.
Antonello Correale