Sommario
In questo articolo vengono esposte una serie di riflessioni
sull’evoluzione dei servizi che offrono trattamenti psicoterapici
per utenti con un quadro psicopatologico di tipo borderline, inseriti
nelle strutture del sistema sanitario nazionale.
Viene
analizzato dapprima il lavoro svolto presso il Cassel Hospital
di Londra, una struttura pubblica con una lunga tradizione che
l’ha visto prima protagonista nello sviluppo delle comunità terapeutiche
e successivamente nella strutturazione di programmi d’intervento
specializzati nel trattamento dei gravi disturbi di personalità,
in prevalenza di tipo borderline. I cambiamenti nell’organizzazione
degli interventi sono avvenuti nel tempo mantenendo vivo e costante
il dialogo tra ricerca e pratica clinica, e questa prassi di lavoro
ha permesso di evidenziare alcuni punti che possono aiutare nella
pianificazione di un programma terapeutico. A questa introduzione
segue una descrizione sintetica della storia dei servizi di salute
mentale italiani, della loro articolazione e delle risorse di
cui dispone il Dipartimento di Salute Mentale. Alla luce degli
spunti provenienti dal lavoro del Cassel, e dalle considerazioni
di autori che nel panorama internazionale contribuiscono ad arricchire
il dialogo tra ricerca e clinica, si riflette sulla disponibilità
di trasferire alcuni di questi suggerimenti nella varietà dell’offerta
dai servizi italiani. Tale varietà, che contraddistingue anche
storicamente i servizi italiani, rappresenta probabilmente una
risorsa. Pensare alla specificità di alcuni interventi, ai bisogni
di una particolare utenza e farlo attraverso una riflessione costante
sul proprio e l’altrui lavoro, può forse permettere di utilizzare
tale risorsa nell’articolazione di interventi che si rivolgono
a pazienti con gravi disturbi di personalità.
The evolution
of personality disorders treatment at the Cassel Hospital and
its relevance for mental health services in Italy
Abstract
This article deals with several considerations
about the evolution of services integrated in the National Health
Service structures, offering psychotherapeutic treatments for
people with borderline personality disorders.
It
is primarily analyzed the work performed at the London Cassel
Hospital, a long time tradition public structure which has first
been protagonist of the therapeutic communities development and
then successful in intervention programs oriented to severe personality
disorders, mainly for borderline patients. The connection between
research and clinical practice has been ever-present and steady
through all the changes concerning the treatments organization;
this praxis allowed pointing out elements which may help planning
a therapeutic program. After this introduction it follows a concise
description about the Italian mental health services history,
their structure and the available resources for the Department
of Mental Health. It is possible to consider to transfer some
of Cassel hints in the variety of the Italian system from Cassel
work and along with comments of authors which in the international
panorama contribute to enrich the exchange between research and
clinical practice. The diversification, which historically distinguishes
the Italian services, probably represents a good resource, which
it might be used to determinate specific interventions for personality
disorders. For this it could be useful to consider the specificity
of different kinds of treatment, the needs of particular patients
and the constant review between our and someone elsÈs work .
Dalla
comunità terapeutica ai trattamenti territoriali per disturbi
borderline di personalità al Cassel Hospital
Il Cassel Hospital rappresenta
storicamente la prima esperienza di comunità terapeutica, ad orientamento
psicoanalitico, nata in un ambiente ospedaliero. La struttura,
che dal 1919 inizialmente accoglieva pazienti nevrotici e reduci
di guerra, entrò a far parte del Sistema Sanitario Nazionale inglese
dal 1949.
L’ideatore dell’impostazione
metodologica sottostante fu Tom Main che diresse l’ospedale dal
‘45 al ’76, dalle cui idee e dal cui lavoro presero spunto numerosi
e autorevoli studiosi del tempo che contribuirono a diffondere
la nascita di diverse strutture comunitarie e ad espandere una
cultura terapeutica (Main 1946). Tra questi si ricorda il lavoro
di Maxwell Jones presso l’Henderson Hospital (Jones 1953) e successivamente
al Dingleton Hospital in Scozia. In parallelo, si svilupparono
diversi ospedali psicoanalitici nel Nord america come la Menninger
Clinic, il Chestnut Lodge Hospital e l’Austen Riggs Centre che
divennero centri pionieristici nel trattamento delle sindromi
psicotiche e dei disturbi gravi di personalitá. Dall’altro lato
il movimento antipsichiatrico britannico incentrato sul lavoro
di R.D. Laing, Cooper e Esterson sorse come reazione alle pratiche
alienanti e disumanizzanti della psichiatria tradizionale. Il
movimento delle comunità terapeutiche si impose criticando e cercando
di superare le idee di cura della malattia mentale che la psichiatria
aveva fino a quel momento sostenuto e che non prevedevano alcuna
forma di partecipazione attiva del paziente nel percorso terapeutico.
Il clima politico-culturale
dei primi anni ’80 portò il Cassel e le altre strutture comunitarie
a rivedere i trattamenti in uso, mantenendo saldi i principi del
movimento comunitario che avevano aperto la strada a nuove modalità
di espressione e analisi delle dinamiche intrapsichiche e interpersonali
dei pazienti e dell’intera struttura. La prima trasformazione
importante del Cassel riguardò lo sviluppo di un programma residenziale
della durata minima di 12 mesi rivolto ad un’utenza che nel tempo
si era trasformata. Sul finire degli anni ’80 la gran parte degli
invii verso questo tipo di strutture riguardava pazienti con disturbi
di personalità, in prevalenza di tipo borderline[3], che non sembravano trarre
particolari benefici né dai trattamenti psichiatrici tradizionali,
né da interventi psicoterapici tradizionali.
La caratteristica principale
dell’intervento residenziale, tutt’oggi attivo presso il Cassel,
è la bimodalità del trattamento che offre da una parte un intervento
psicoterapico individuale di stampo psicoanalitico, e dall’altro
un lavoro di tipo socioterapico (Main 1989). In questo modo il
modello residenziale integrato proposto si prefigge di aiutare
i pazienti sia nell’esplorazione di dinamiche conflittuali, nella
comprensione e interpretazione dei frequenti acting-out, rivolti
anche all’equipe e all’ambiente terapeutico, sia di stimolare
nei pazienti la possibilità di riflettere, con l’aiuto di infermieri
specializzati nella pratica psicosociale, sulle capacità relazionali
e sugli schemi comportamentali che si mettono in atto nelle attività
di gruppo (Griffiths e Hinshelwood 1997). Il polo psicoterapico
si concentra dunque maggiormente sull’analisi delle difese e dei
conflitti interni e interpersonali e verso quelle emozioni che
il processo di inserimento, e dimissione poi, suscita nei pazienti.
Questo tipo di lavoro crea la possibilità di recuperare significati,
pensieri, narrazioni che si vanno pian piano a sostituire agli
agiti e che permettono agli infermieri socioterapici di impostare
un lavoro sia gruppale che individuale di affiancamento nelle
attività quotidiane, offrendosi come mediatori tra il mondo interno
del paziente e lo staff ospedaliero della struttura. Alla base
delle due proposte terapeutiche vi è la convinzione che il paziente
debba partecipare attivamente alla vita dell’ospedale lavorando
quotidianamente e in maniera costante con successi, fallimenti
e responsabilità di ognuno, cercando di sostenerlo nel riconoscimento
delle proprie potenzialità e risorse (Hinshelwood e Skogstad 1998).
Da questa breve descrizione
del trattamento residenziale appare forse chiaro come terapeuti
e infermieri devono essere in grado di muoversi in un contesto
multidimensionale che riesca a mediare tra esperienze fisiologiche,
sociali e psicologiche del paziente, un contesto che deve dunque
anche prevedere un adeguato spazio di riflessione in cui l’equipe
può lavorare sui forti sentimenti controtransferali che nascono
nel rapporto con i pazienti. Un’altra importante trasformazione
di questa struttura è avvenuta negli anni ’90. La convergenza
tra aspetti clinici e politici, che minacciavano la sopravvivenza
dei trattamenti residenziali, ha portato l’ospedale alla formulazione
di due nuove tipologie di intervento: lo step-down programme e
l’outreach programme. Lo sviluppo di questi due nuovi modelli
è stato sollecitato da un lato dalle pressioni del sistema sanitario
circa gli elevati costi dei trattamenti residenziali e le richieste
di dimostrazione d’efficacia dei trattamenti stessi; dall’altro
i primi studi di follow-up hanno permesso di far luce su alcune
lacune del trattamento residenziale a lungo termine che per un’alta
percentuale di pazienti dimessi si traducevano in successivi ricoveri
e nuovi ricorsi ai servizi sanitari (Chiesa e Fonagy 2003).
Lo Step-Down Programme
è un trattamento che prevede una residenzialità di 6 mesi a cui
segue un lavoro psicosociale continuativo, ambulatoriale, durante
il quale i pazienti continuano la psicoterapia in gruppi analitici
e portano avanti le attività socioterapiche.
L’Outreach Programme,
introdotto solo alla fine degli anni ’90, è invece un programma
interamente territoriale, della durata di circa due anni, in cui
non è previsto alcun periodo di ricovero in ospedale. Gli utenti
accedono, perciò, direttamente ad un lavoro di tipo psicoterapico
di gruppo e ad un percorso socioterapico portato avanti da infermieri
psicosociali che aiutano i pazienti a prendere contatti con altre
agenzie sanitarie costituendo così una rete di contenimento efficace
sia nel prevenire ricadute da un punto di vista sintomatologico,
sia nel rendere meno traumatico il distacco dall’istituzione ospedaliera.
La bimodalità propria
del programma residenziale, cioè la psicoterapia e le attività
socioterapiche, in questi modelli è trasportata all’esterno della
struttura ospedaliera (Chiesa e Fonagy 2002). Le caratteristiche
di questi due programmi hanno reso necessario rivolgere tali interventi
ai pazienti residenti nell’area di Londra.
L’introduzione dei modelli
ambulatoriali e territoriali ha segnato anche l’avvio di un’importante
attività di ricerca che ha verificato l’efficacia terapeutica
dei programmi in uso. Il team di ricerca del Cassel in collaborazione
con i docenti della University College London, ha confrontato
la relativa efficacia dei modelli del Cassel (il modello Step-Down
e quello residenziale a lungo termine) tra di loro, ed entrambi
rispetto ad un gruppo di controllo costituto da pazienti con disturbo
grave di personalità gestiti in servizi di psichiatria generale
senza esposizione a trattamenti psicoterapici specifici. I tre
gruppi di pazienti trattati nei tre modelli diversi sono stati
seguiti con follow-up fino a sei anni di distanza dall’intervento.
I risultati osservabili hanno dimostrato una maggior efficacia
dei trattamenti con breve residenzialità e territoriali, particolarmente
in termini di regressione sintomatologica, un miglior adattamento
sociale, una riduzione di comportamenti auto-lesivi e suicidari
e una diminuzione del ricorso a servizi sanitari, in particolare
delle riammissioni ospedaliere (Chiesa e Fonagy 2000; Chiesa et
al. 2006; Chiesa et al. 2004).
Le riflessioni psicodinamiche
presenti sul panorama internazionale, a cui si accennerà più avanti,
e l’esperienza clinica con i pazienti borderline, hanno permesso
di leggere e utilizzare tali dati per meglio comprendere le difficoltà
che trattamenti molto intensivi possono creare per i pazienti
e per lo staff che se ne occupa. Le ricerche hanno evidenziato
come i modelli ambulatoriali e territoriali a bassa residenzialità
intervengano in maniera più efficace sulle difficoltà riscontrate
da molti utenti nella delicata fase di reintegrazione nella vita
comunitaria al termine di una ospedalizzazione. Questi elementi
hanno permesso di riflettere sulla importanza di formulare interventi
prolungati nel tempo ma con un’intensità minore di quella presente
nei modelli ospedalieri e di comunità terapeutica (Chiesa et al.
2003a). Di fatto, l’ammissione in un setting residenziale comporta
una molteplicità di input e un alto livello di coinvolgimento
emotivo che spesso, nei pazienti con un disturbo borderline, può
creare effetti antiterapeutici come lo sviluppo di una dipendenza
eccessiva verso il trattamento e reazioni di tipo claustrofobico,
che portano a percepire l’ospedale come ambiente rigido e persecutorio.
La componente regressiva insita nei programmi residenziali, ad
alto contenimento, genera forti emozioni nei pazienti che spesso
si manifestano anche in risposte controtransferali negative da
parte dello staff. Il rischio di sviluppare atteggiamenti meno
tolleranti e comprensivi delle difficoltà e degli acting-out dei
pazienti, da parte dello staff è una riflessione scaturita anche
alla luce di ricerche sul fenomeno del drop-out (Chiesa et al.
2003b). Il lungo periodo di ricovero potrebbe essere responsabile
di una regressione contro-terapeutica in alcuni pazienti, e questo,
con molta probabilità, andrebbe ad alimentare risposte antiterapeutiche
e scissioni nello staff. Una tale sequenza di reazioni disfunzionali
può dunque condurre ad una prematura dimissione o ad un allontanamento
del paziente (Chiesa et al. 2000).
L’intervento continuativo
e prolungato nel territorio assicura, invece, rispetto agli intensi
stati emotivi e le sofferenti manifestazioni comportamentali del
paziente, la costruzione di una funzione di contenimento flessibile
e non coercitiva che permette anche di instaurare rapporti stabili
con altre agenzie a cui il paziente si rivolge. La prospettiva
di una breve residenzialità e di un lavoro continuativo sul territorio
rende dunque possibile immaginare che vi sia una maggior tolleranza,
per i pazienti e per lo staff, degli aspetti claustrofobici e
persecutori, presenti nell’intensa atmosfera emotiva di un setting
ospedaliero.
Dunque, la ricerca empirica
sull’efficacia delle terapie e le riflessioni sugli elementi che
incidono nello stabilirsi di una dipendenza maligna e perversa
con i servizi sanitari, psichiatrici e sociali, ha portato il
Cassel, e più in generale il panorama internazionale, allo sviluppo
di programmi terapeutici specifici per il trattamento e la gestione
dei gravi disturbi di personalità. Gli spunti principali che emergono
dalle ricerche del Cassel, su cui ruota la trasformazione di modelli
di intervento rivolti a pazienti borderline, sono dunque l’importanza
di un lavoro continuativo nel territorio, che risulti intenso,
flessibile ma non coercitivo, che permetta un adeguato spazio
di riflessione per l’intera equipe, coinvolgendo anche gli operatori
esterni alla struttura con cui il paziente entra in contatto.
Un recente studio naturalistico ha evidenziato che, alla luce
degli esiti nella sfera dei comportamenti impulsivi e dell’accettabilità
e tolleranza dei pazienti al trattamento, il modello territoriale
rappresenta una alternativa adeguata e a più bassi costi rispetto
al trattamento ospedaliero a lungo termine (Chiesa et al. 2008).
Queste indicazioni terapeutiche della proposta britannica possono
forse aiutare nella riflessione relativa all’organizzazione italiana.
L’organizzazione italiana:
dalla chiusura dei manicomi alle strutture intermedie
Le strutture di salute
mentale italiane e la loro attuale organizzazione risentono di
una storia dei servizi in parte differente dalla realtà britannica,
e che ha condotto alla nascita delle strutture intermedie territoriali
che vanno dall’ospedalizzazione alla ambulatorietà.
A partire dagli anni ’60
iniziò in Italia un periodo di critica e ripensamenti sulle strutture
manicomiali, e si cominciò a riflettere sull’importanza di un
supporto psicologico per gli utenti psichiatrici. Furono diverse
le esperienze, anche molto radicali, volte alla chiusura e abolizione
del manicomio e alla nascita di comunità terapeutiche all’interno
degli ospedali psichiatrici (Basaglia 1968). Le idee alla base
di questa nuova psichiatria, si rifacevano alle esperienze e ai
principi del movimento comunitario iniziato da Jones e Main in
Inghilterra. Nel tempo il dibattito si concentrò maggiormente
sulla nascita di nuove istituzioni, nuove forme di cura della
sofferenza mentale che non conducessero alla cronicizzazione della
malattia. Veniva teorizzato il definitivo e totale smantellamento
dei manicomi per passare ad una gestione territoriale, esterna,
dei bisogni dei pazienti. La concomitanza dei due avvenimenti,
l’approvazione della legge 180 del 1978 e la nascita del Sistema
Sanitario Nazionale, iscrisse ancora di più la riforma psichiatrica
nel più ampio quadro di riforma del sistema sanitario, in cui
la tutela della salute mentale occupò un ruolo predominante.
In questa fase vi è stato
un importante processo di migrazione dei pazienti dall’ospedale
psichiatrico verso le prime strutture residenziali che cominciavano
a nascere nel territorio. Si trattava di strutture con un minor
livello di protezione e con finalità più spiccatamente terapeutiche
e riabilitative. Tutte le situazioni di sofferenza psichica e
di disagio sociale, prima gestite interamente dal manicomio, dovevano
trovare una nuova riposta nel territorio, integrando varie agenzie
nella presa in carico dei pazienti. È questo il momento storico
e culturale i cui si è iniziato a parlare di strutture intermedie.
Da più parti è stato evidenziato come le esperienze di deistituzionalizzazione
del tempo utilizzarono i principi delle comunità terapeutiche
principalmente per facilitare il processo di chiusura dei manicomi,
ma a questo raramente seguì la realizzazione di apposite strutture
alternative (Foresti et al., 1998; Berti-Ceroni e Correale, 1999).
Le prime comunità terapeutiche
italiane sorsero prevalentemente in funzione dei pazienti gravi,
psicotici che rappresentavano la maggioranza dell’utenza manicomiale.
Questo aspetto contraddistingue, ad esempio, le comunità italiane
da quelle nate in Inghilterra che inizialmente si occupavano di
pazienti nevrotici, reduci di guerra e personalità psicopatiche.
Un aspetto dei servizi, che si è fondato a partire da quel momento
storico, ha riguardato la possibilità di creare strutture territoriali
che potessero accogliere in un unico setting tutti i bisogni di
tutti i pazienti. È ipotizzabile che, nel clima di quegli anni,
l’analisi e la codifica dei bisogni dell’utenza avesse ceduto
il posto al fervore di rinnovamento delle istituzioni. Oggi, forse,
è diventato cruciale poter ripensare all’importanza della valutazione
e dell’idoneità di alcune strutture di fronte alle nuove problematiche
e ai diversi disturbi psicopatologici con cui i servizi devono
lavorare. Questo probabilmente significa anche poter pensare a
forme di setting adattabili e flessibili per fare fronte con maggiore
efficacia ad un’utenza diversificata con cui gli operatori si
interfacciano. La patologia presentata dai pazienti borderline
necessita di interventi a medio o a lungo termine, una costanza
e coerenza di approccio terapeutico da parte dell’equipe curante,
un focus sugli aspetti interpersonali e un adattamento alle caratteristiche
evolutive del disturbo borderline (Bateman e Fonagy 2004). La
mancanza di flessibilità nella organizzazione dei servizi nel
rapportarsi a patologie specifiche, presente nel panorama italiano,
porta all’‘offerta di funzioni “simmetriche” rispetto al bisogno
indilazionabile manifestato dal paziente, a breve termine e ad
andamento discontinuo (...) con evidenti conseguenze sfavorevoli
sugli esiti e sui costi del trattamento’ (Bassi 2008) .
Le esperienze nate dopo
la legge 180, nate a volte in modo non omogeneo sul territorio
nazionale, sono in realtà servite per strutturare quello che oggi
è il Dipartimento di Salute Mentale entro cui si articola tutta
l’offerta dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione psichiatrica
per il cittadino. Il dipartimento gestisce la coordinazione tra
i vari livelli terapeutici di un progetto, che si articolano poi
all’interno delle singole unità operative territoriali (centri
diurni, comunità etc..).
Probabilmente, le riforme
del sistema sanitario successive alla 180, come quella che ha
previsto la sua aziendalizzazione, non sono nel tempo riuscite
a definire degli obiettivi di priorità riguardo a specifici quadri
psicopatologici, e questa sembra essere una caratteristica distintiva,
e in parte una risorsa, del sistema italiano in cui i servizi
si rivolgono e sono a disposizione di tutti i cittadini senza
particolari selezioni. Diversamente dall’Italia, le strutture
maggiormente specializzate nell’assistenza di determinati disturbi,
come il Cassel Hospital, presentano dei chiari criteri di inclusione
ed esclusioni dai trattamenti.
Gli strumenti di cui si
è dotata la psichiatria comunitaria italiana, dalla chiusura dei
manicomi in poi, seppur rivolti ad un bacino d’utenza allargato
rispetto alle esperienze straniere, forse, non sono rimasti immuni
dal pericolo di ricreare degli ambienti cronicizzati e cronicizzanti,
sia per l’utenza che da sempre ruota attorno ai servizi, sia per
le diverse tipologie di disturbi che sempre più arrivano all’attenzione
dei centri di salute mentale.
I disturbi di personalità,
e in particolare i pazienti con un disturbo borderline di personalità,
potrebbero essere più inclini ad entrare in un circuito di “nuova
cronicità” tra i servizi, pur non essendo passati per l’istituzione
manicomiale. Una condizione di cronicità caratterizzata da un’inadeguatezza
degli interventi proposti che si incastra negativamente con le
caratteristiche cliniche del paziente borderline. Ci si chiede
allora, rispetto a quanto evidenziato dal modello del Cassel,
se una vasta gamma di servizi, non coordinati e in sovrapposizione,
non possa nascondere il rischio di trasformarsi in un’eccessiva
frammentazione delle risposte terapeutiche. Una cattiva coordinazione
tra le risorse territoriali potrebbe condurre a irrigidimenti
su schemi, regole e procedure propri di ogni ente, non riuscendo
in questo modo ad accogliere la richiesta di aiuto del paziente
borderline. Come è stato evidenziato di recente in alcuni lavori
curati da Vigorelli (2005), i servizi dovrebbero riuscire a programmare
degli interventi che partano dalla comprensione della “stabile
instabilità” della condizione borderline. Comprendere questo può
aiutare a prevedere il coinvolgimento coordinato di più figure
professionali che riescano ad integrare i vari interventi.
Caratteristiche di
un intervento territoriale per pazienti borderline
Nella strutturazione di
un intervento rivolto ad un’utenza borderline, probabilmente è
importante avere a mente una serie di dati e considerazioni che
arrivano sia dalla ricerca in psicoterapia che dal lavoro di numerosi
psicoterapeuti e psicoanalisti che hanno permesso di approfondire
la comprensione di questo disturbo.
Diversi autori si sono
occupati di sottolineare gli aspetti principali dei trattamenti
rivolti a questi pazienti, descrivendo alcune caratteristiche
dell’intervento che sembrano trasferibili e utili in questa riflessione
sui servizi territoriali italiani.
Uno degli aspetti su cui
i trattamenti a lungo termine nel territorio, come l’Outreach
Programme del Cassel, sembrano incidere maggiormente è la difficoltà
del paziente borderline di vivere e gestire la separazione dall’istituzione.
Questa fase è spesso accompagnata da un forte sentimento di intolleranza
alla solitudine, evidenziato soprattutto dalle ricerche e gli
studi di Gunderson (1996), che si manifesta in passaggi all’atto
e ricadute sintomatologiche. Secondo l’autore il deficit presente
nella tolleranza alla solitudine spiegherebbe la necessità di
pensare a relazioni terapeutiche con i pazienti che si sviluppino
in un lungo periodo, necessario per il recupero e l’internalizzazione
di una diversa modalità di relazione. Impostare i trattamenti
in questa ottica significa, secondo Gunderson, osservare nel tempo
un’effettiva riduzione nell’utilizzo dei servizi sanitari e un
cambiamento intrapsichico nelle aspettative verso le relazioni.
Per fare questo è necessario
dunque mantenere un buon coordinamento all’interno dell’equipe
e con gli altri referenti presenti sul territorio, così da riuscire
a contenere gli aspetti più distruttivi degli agiti senza ricorrere
a misure coercitive o ricoveri ospedalieri. La struttura organizzativa
dell’intervento è perciò un’importante definizione che incide
sul mantenimento di una visione stabile, coerente e prevedibile
che premetterà lentamente al paziente di recuperare a sua volta
stabilità e coerenza interna. Secondo Gabbard (2004), la stabilità
della cornice terapeutica è determinata da fonti esterne rappresentate
ad un estremo dagli ambienti ospedalieri e all’altro dai programmi
meno intensivi, ambulatoriali. L’assenza di una tale struttura
terapeutica, ben definita, rischia di tradursi in interventi caotici,
dai confini poco chiari che provocano eccessi di proiezioni e
regressioni nel paziente.
Ugualmente importante
è il mantenimento di una buona coerenza e costanza del trattamento.
Questo aspetto, sottolineato ad esempio da Kernberg (1996) e da
Bateman e Fonagy (2006), è uno spunto interessante di riflessione
per l’equipe troppo spesso esposta a fenomeni di splitting o spaccature.
Lo stato confusionale e di disorganizzazione che ne scaturisce
rispecchia le profonde e disarmanti scissioni interne del paziente
borderline che vengono agite e proiettate sui responsabili terapeutici.
Il grado di flessibilità
interna al trattamento è un aspetto che, se presente nelle menti
degli operatori in termini di disponibilità a stabilire alcuni
compromessi sulla terapia, può risultare efficace nel prevenire
precoci interruzioni del trattamento ed evitare che nel paziente
si intensifichino rappresentazioni rigide del sé e degli altri.
Allo stesso modo è importante
che l’intervento proposto abbia un livello di contenimento tale
da riuscire, almeno inizialmente, a stabilizzare gli aspetti fortemente
caotici del funzionamento sociale e intrapsichico del paziente
borderline, così da ridurre la presenza di comportamenti autolesivi
e impulsivi. In questo senso sembra incidere positivamente, ad
esempio, un breve periodo di ricovero ospedaliero o di residenzialità
in una struttura comunitaria.
Cercando, perciò, di calare
queste caratteristiche nella realtà italiana dei servizi, probabilmente
le comunità terapeutiche possono rappresentare il primo livello
di intervento. Le ricerche portate avanti dal Cassel, e in generale
nel panorama internazionale, hanno evidenziato la maggior efficacia
terapeutica dei trattamenti con una breve residenzialità a cui
segue un intervento terapeutico territoriale a lungo termine.
In questo senso le comunità sono forse le strutture adeguate per
pensare un periodo di residenzialità in cui poter stabilizzare
e insieme comprendere i fenomeni di polarizzazione, scissione,
acting-out così frequenti nei pazienti borderline. La residenzialità
può essere pensata come momento di approfondimento nell’esplorazione
delle dinamiche del paziente così da permettere una chiara pianificazione
successiva di interventi gradualmente più flessibili.
Come è stato sottolineato
da Correale (1991) rispetto ai ricoveri ospedalieri, se il reparto,
e in questo caso diremmo se il periodo di residenzialità presso
una comunità, non permette di vivere un’esperienza di contatto
e di integrazione, si connoterà rapidamente di elementi segreganti,
tipici delle istituzioni manicomiali. Quello che è importante
sottolineare è che l’intervento non dovrebbe esaurirsi con il
ricovero e non dovrebbe diventare a lungo termine prolungando
la residenzialità. Dal periodo comunitario deve infatti scaturire
anche la possibilità di impostare una rete di relazioni terapeutiche
con altre agenzie del territorio, come viene illustrato, ad esempio,
nel lavoro di Cecere e Ciocchetti (2003), che propongono una riflessione
sui benefici di un continuo monitoraggio delle proposte terapeutiche
attraverso il confronto e la discussione clinica con gli operatori
di più servizi coinvolti nel percorso terapeutico di una paziente
borderline.
I setting multipli, e
il coinvolgimento di più strutture territoriali, possono funzionare
per il paziente come contenitore di ansie e paure legate alla
separazione, permettendogli al tempo stesso di sviluppare un buon
livello di autonomia e indipendenza. Questa gestione allargata
e prolungata nel tempo, questo “policentrismo terapeutico” (Correale
2006), permette probabilmente di rispondere in maniera adeguata
alle paure e difficoltà del paziente borderline e di intervenire
efficacemente anche a livello socioterapico, in un momento successivo
alla residenzialità, come viene proposto sia nei modelli del Cassel
che nei suggerimenti esposti da Gunderson (2003) per la strutturazione
di un intervento efficace. Si creerebbe così una alleanza terapeutica
distribuita ed estesa in luoghi e interventi diversi continuamente
ricomposti e tenuti a mente degli operatori della comunità. Questo
aspetto è importante anche a fronte delle considerazioni fatte
sulle situazioni di cronicità e gravi psicosi a cui solitamente
e storicamente i servizi italiani sono adattati. Si tratta di
condizioni molto diverse da quelle del paziente borderline caratterizzate
invece da continue intermittenze e discontinuità nei trattamenti.
Un intervento così “diluito”
richiede sicuramente la presenza di spazi di riflessione e supervisione
per gli operatori coinvolti nel progetto, uno spazio che permetta
di prevenire e comprendere risposte controtransferali antiterapeutiche,
la cui presenza nei setting residenziali è stata sottolineata
anche dalle ricerche del Cassel Hospital. Le situazioni di impasse,
generatrici di circoli viziosi fatti di azioni controproducenti
e dannose che limitano il pensiero terapeutico, sono state analizzate
da diversi autori che vedono nella supervisione uno strumento
importante, introdotto nell’organizzazione istituzionale, per
comprendere difese, fantasie e blocchi dell’equipe (Vigorelli
1994).
Conclusioni
Per concludere è forse
importante sottolineare come l’apporto della ricerca possa aiutare
i servizi, e gli operatori coinvolti nei trattamenti, a comprendere
e approfondire le componenti intrapsichiche dei pazienti così
come quelle riguardanti l’istituzione e lo staff. L’esempio del
Cassel Hospital offre uno spunto di riflessione sull’importanza
di pensare l’attività di ricerca come risorsa costruttiva e creativa
per le strutture. Affiancare la pratica clinica alla ricerca permette
anche di pensare a nuove soluzioni e nuovi interventi terapeutici
sempre più aderenti alle richieste di una particolare utenza,
ed è probabilmente nei confronti di questa nuova utenza che le
strutture del sistema italiano, pur mantenendo un assetto principalmente
generalista, dovrebbero però far convergere in modo sinergico
il lavoro terapeutico di più servizi territoriali.
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