GRUPPO DI STUDIO PER IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

Per gentile concessione del dott. Mario Di Fiorino, Direttore della rivista 'Psichiatria e territorio' pubblichiamo questo articolo (comparso nel vol. XXV, n. 1. 2008):

L’EVOLUZIONE DEL TRATTAMENTO PER I DISTURBI DI PERSONALITÀ AL CASSEL HOSPITAL E LA SUA RILEVANZA PER I SERVIZI DI SALUTE MENTALE IN ITALIA

Silvia Santiccioli [1] e Marco Chiesa [2]

 

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Sommario  In questo articolo  vengono esposte una serie di riflessioni sull’evoluzione dei servizi che offrono trattamenti psicoterapici per utenti con un quadro psicopatologico di tipo borderline, inseriti nelle strutture del sistema sanitario nazionale.
Viene analizzato dapprima il lavoro svolto presso il Cassel Hospital di Londra, una struttura pubblica con una lunga tradizione che l’ha visto prima  protagonista nello sviluppo delle comunità terapeutiche e successivamente nella strutturazione di programmi d’intervento specializzati nel trattamento dei gravi disturbi di personalità, in prevalenza di tipo borderline. I cambiamenti nell’organizzazione degli interventi sono avvenuti nel tempo mantenendo vivo e costante il dialogo tra ricerca e pratica clinica, e questa prassi di lavoro ha permesso di evidenziare alcuni punti che possono aiutare nella pianificazione di un programma terapeutico. A questa introduzione segue una descrizione sintetica della storia dei servizi di salute mentale italiani, della loro articolazione e delle risorse di cui dispone il Dipartimento di Salute Mentale. Alla luce degli spunti provenienti dal lavoro del Cassel, e dalle considerazioni di autori che nel panorama internazionale contribuiscono ad arricchire il dialogo tra ricerca e clinica, si riflette sulla disponibilità di trasferire alcuni di questi suggerimenti nella varietà dell’offerta dai servizi italiani. Tale varietà, che contraddistingue anche storicamente i servizi italiani, rappresenta probabilmente una risorsa. Pensare alla specificità di alcuni interventi, ai bisogni di una particolare utenza e farlo attraverso una riflessione costante sul proprio e l’altrui lavoro, può forse permettere di utilizzare tale risorsa nell’articolazione di interventi che si rivolgono a pazienti con gravi disturbi di personalità.
 
The evolution of personality disorders treatment at the Cassel Hospital and its relevance for mental health services in Italy
Abstract  This article deals with several considerations about the evolution of services integrated in the National Health Service structures, offering psychotherapeutic treatments for people with borderline personality disorders.
It is primarily analyzed the work performed at the London Cassel Hospital, a long time tradition public structure which has first been protagonist of the therapeutic communities development and then successful in intervention programs oriented to severe personality disorders, mainly for borderline patients. The connection between research and clinical practice has been ever-present and steady through all the changes concerning the treatments organization; this praxis allowed pointing out elements which may help planning a therapeutic program. After this introduction it follows a concise description about the Italian mental health services history, their structure and the available resources for the Department of Mental Health. It is possible to consider to transfer some of Cassel hints in the variety of the Italian system from Cassel work and along with comments of authors which in the international panorama contribute to enrich the exchange between research and clinical practice. The diversification, which historically distinguishes the Italian services, probably represents a good resource, which it might be used to determinate specific interventions for personality disorders. For this it could be useful to consider the specificity of different kinds of treatment, the needs of particular patients and the constant review between our and someone elsÈs work .
 
Dalla comunità terapeutica ai trattamenti territoriali per disturbi borderline di personalità al Cassel Hospital
Il Cassel Hospital rappresenta storicamente la prima esperienza di comunità terapeutica, ad orientamento psicoanalitico, nata in un ambiente ospedaliero. La struttura, che dal 1919 inizialmente accoglieva pazienti nevrotici e reduci di guerra, entrò a far parte del Sistema Sanitario Nazionale inglese dal 1949.
L’ideatore dell’impostazione metodologica sottostante fu Tom Main che diresse l’ospedale dal ‘45 al ’76, dalle cui idee e dal cui lavoro presero spunto numerosi e autorevoli studiosi del tempo che contribuirono a diffondere la nascita di diverse strutture comunitarie e ad espandere una cultura terapeutica (Main 1946). Tra questi si ricorda il lavoro di Maxwell Jones presso l’Henderson Hospital (Jones 1953) e successivamente al Dingleton Hospital in Scozia. In parallelo, si svilupparono diversi ospedali psicoanalitici nel Nord america come la Menninger Clinic, il Chestnut Lodge Hospital e l’Austen Riggs Centre che divennero centri pionieristici nel trattamento delle sindromi psicotiche e dei disturbi gravi di personalitá. Dall’altro lato il movimento antipsichiatrico britannico incentrato sul lavoro di R.D. Laing, Cooper e Esterson sorse come reazione alle pratiche alienanti e disumanizzanti della psichiatria tradizionale. Il movimento delle comunità terapeutiche si impose criticando e cercando di superare le idee di cura della malattia mentale che la psichiatria aveva fino a quel momento sostenuto e che non prevedevano alcuna forma di partecipazione attiva del paziente nel percorso terapeutico.
Il clima politico-culturale dei primi anni ’80 portò il Cassel e le altre strutture comunitarie a rivedere i trattamenti in uso, mantenendo saldi i principi del movimento comunitario che avevano aperto la strada a nuove modalità di espressione e analisi delle dinamiche intrapsichiche e interpersonali dei pazienti e dell’intera struttura. La prima trasformazione importante del Cassel riguardò lo sviluppo di un programma residenziale della durata minima di 12 mesi rivolto ad un’utenza che nel tempo si era trasformata. Sul finire degli anni ’80 la gran parte degli invii verso questo tipo di strutture riguardava pazienti con disturbi di personalità, in prevalenza di tipo borderline[3], che non sembravano trarre particolari benefici né dai trattamenti psichiatrici tradizionali, né da interventi psicoterapici tradizionali.
La caratteristica principale dell’intervento residenziale, tutt’oggi attivo presso il Cassel, è la bimodalità del trattamento che offre da una parte un intervento psicoterapico individuale di stampo psicoanalitico, e dall’altro un lavoro di tipo socioterapico (Main 1989). In questo modo il modello residenziale integrato proposto si prefigge di aiutare i pazienti sia nell’esplorazione di dinamiche conflittuali, nella comprensione e interpretazione dei frequenti acting-out, rivolti anche all’equipe e all’ambiente terapeutico, sia di stimolare nei pazienti la possibilità di riflettere, con l’aiuto di infermieri specializzati nella pratica psicosociale, sulle capacità relazionali e sugli schemi comportamentali che si mettono in atto nelle attività di gruppo (Griffiths e Hinshelwood 1997). Il polo psicoterapico si concentra dunque maggiormente sull’analisi delle difese e dei conflitti interni e interpersonali e verso quelle emozioni che il processo di inserimento, e dimissione poi, suscita nei pazienti. Questo tipo di lavoro crea la possibilità di recuperare significati, pensieri, narrazioni che si vanno pian piano a sostituire agli agiti e che permettono agli infermieri socioterapici di impostare un lavoro sia gruppale che individuale di affiancamento nelle attività quotidiane, offrendosi come mediatori tra il mondo interno del paziente e lo staff ospedaliero della struttura. Alla base delle due proposte terapeutiche vi è la convinzione che il paziente debba partecipare attivamente alla vita dell’ospedale lavorando quotidianamente e in maniera costante con successi, fallimenti e responsabilità di ognuno, cercando di sostenerlo nel riconoscimento delle proprie potenzialità e risorse (Hinshelwood e Skogstad 1998).
Da questa breve descrizione del trattamento residenziale appare forse chiaro come terapeuti e infermieri devono essere in grado di muoversi in un contesto multidimensionale che riesca a mediare tra esperienze fisiologiche, sociali e psicologiche del paziente, un contesto che deve dunque anche prevedere un adeguato spazio di riflessione in cui l’equipe può lavorare sui forti sentimenti controtransferali che nascono nel rapporto con i pazienti. Un’altra importante trasformazione di questa struttura è avvenuta negli anni ’90. La convergenza tra aspetti clinici e politici, che minacciavano la sopravvivenza dei trattamenti residenziali, ha portato l’ospedale alla formulazione di due nuove tipologie di intervento: lo step-down programme e l’outreach programme. Lo sviluppo di questi due nuovi modelli è stato sollecitato da un lato dalle pressioni del sistema sanitario circa gli elevati costi dei trattamenti residenziali e le richieste di dimostrazione d’efficacia dei trattamenti stessi; dall’altro i primi studi di follow-up hanno permesso di far luce su alcune lacune del trattamento residenziale a lungo termine che per un’alta percentuale di pazienti dimessi si traducevano in successivi ricoveri e nuovi ricorsi ai servizi sanitari (Chiesa e Fonagy 2003).
Lo Step-Down Programme è un trattamento che prevede una residenzialità di 6 mesi a cui segue un lavoro psicosociale continuativo, ambulatoriale, durante il quale i pazienti continuano la psicoterapia in gruppi analitici e portano avanti le attività socioterapiche.
L’Outreach Programme, introdotto solo alla fine degli anni ’90, è invece un programma interamente territoriale, della durata di circa due anni, in cui non è previsto alcun periodo di ricovero in ospedale. Gli utenti accedono, perciò, direttamente ad un lavoro di tipo psicoterapico di gruppo e ad un percorso socioterapico portato avanti da infermieri psicosociali che aiutano i pazienti a prendere contatti con altre agenzie sanitarie costituendo così una rete di contenimento efficace sia nel prevenire ricadute da un punto di vista sintomatologico, sia nel rendere meno traumatico il distacco dall’istituzione ospedaliera.
La bimodalità propria del programma residenziale, cioè la psicoterapia e le attività socioterapiche, in questi modelli è trasportata all’esterno della struttura ospedaliera (Chiesa e Fonagy 2002). Le caratteristiche di questi due programmi hanno reso necessario rivolgere tali interventi ai pazienti residenti nell’area di Londra.
L’introduzione dei modelli ambulatoriali e territoriali ha segnato anche l’avvio di un’importante attività di ricerca che ha verificato l’efficacia terapeutica dei programmi in uso. Il team di ricerca del Cassel in collaborazione con i docenti della University College London, ha confrontato la relativa efficacia dei modelli del Cassel (il modello Step-Down e quello residenziale a lungo termine) tra di loro, ed entrambi rispetto ad un gruppo di controllo costituto da pazienti con disturbo grave di personalità gestiti in servizi di psichiatria generale senza esposizione a trattamenti psicoterapici specifici. I tre gruppi di pazienti trattati nei tre modelli diversi sono stati seguiti con follow-up fino a sei anni di distanza dall’intervento. I risultati osservabili hanno dimostrato una maggior efficacia dei trattamenti con breve residenzialità e territoriali, particolarmente in termini di regressione sintomatologica, un miglior adattamento sociale, una riduzione di comportamenti auto-lesivi e suicidari e una diminuzione del ricorso a servizi sanitari, in particolare delle riammissioni ospedaliere (Chiesa e Fonagy 2000; Chiesa et al. 2006; Chiesa et al. 2004).
Le riflessioni psicodinamiche presenti sul panorama internazionale, a cui si accennerà più avanti, e l’esperienza clinica con i pazienti borderline, hanno permesso di leggere e utilizzare tali dati per meglio comprendere le difficoltà che trattamenti molto intensivi possono creare per i pazienti e per lo staff che se ne occupa. Le ricerche hanno evidenziato come i modelli ambulatoriali e territoriali a bassa residenzialità intervengano in maniera più efficace sulle difficoltà riscontrate da molti utenti nella delicata fase di reintegrazione nella vita comunitaria al termine di una ospedalizzazione. Questi elementi hanno permesso di riflettere sulla importanza di formulare interventi prolungati nel tempo ma con un’intensità minore di quella presente nei modelli ospedalieri e di comunità terapeutica (Chiesa et al. 2003a). Di fatto, l’ammissione in un setting residenziale comporta una molteplicità di input e un alto livello di coinvolgimento emotivo che spesso, nei pazienti con un disturbo borderline, può creare effetti antiterapeutici come lo sviluppo di una dipendenza eccessiva verso il trattamento e reazioni di tipo claustrofobico, che portano a percepire l’ospedale come ambiente rigido e persecutorio. La componente regressiva insita nei programmi residenziali, ad alto contenimento, genera forti emozioni nei pazienti che spesso si manifestano anche in risposte controtransferali negative da parte dello staff. Il rischio di sviluppare atteggiamenti meno tolleranti e comprensivi delle difficoltà e degli acting-out dei pazienti, da parte dello staff è una riflessione scaturita anche alla luce di ricerche sul fenomeno del drop-out (Chiesa et al. 2003b). Il lungo periodo di ricovero potrebbe essere responsabile di una regressione contro-terapeutica in alcuni pazienti, e questo, con molta probabilità, andrebbe ad alimentare risposte antiterapeutiche e scissioni nello staff. Una tale sequenza di reazioni disfunzionali può dunque condurre ad una prematura dimissione o ad un allontanamento del paziente (Chiesa et al. 2000).
L’intervento continuativo e prolungato nel territorio assicura, invece, rispetto agli intensi stati emotivi e le sofferenti manifestazioni comportamentali del paziente, la costruzione di una funzione di contenimento flessibile e non coercitiva che permette anche di instaurare rapporti stabili con altre agenzie a cui il paziente si rivolge. La prospettiva di una breve residenzialità e di un lavoro continuativo sul territorio rende dunque possibile immaginare che vi sia una maggior tolleranza, per i pazienti e per lo staff, degli aspetti claustrofobici e persecutori, presenti nell’intensa atmosfera emotiva di un setting ospedaliero.
Dunque, la ricerca empirica sull’efficacia delle terapie e le riflessioni sugli elementi che incidono nello stabilirsi di una dipendenza maligna e perversa con i servizi sanitari, psichiatrici e sociali, ha portato il Cassel, e più in generale il panorama internazionale, allo sviluppo di programmi terapeutici specifici per il trattamento e la gestione dei gravi disturbi di personalità. Gli spunti principali che emergono dalle ricerche del Cassel, su cui ruota la trasformazione di modelli di intervento rivolti a pazienti borderline, sono dunque l’importanza di un lavoro continuativo nel territorio, che risulti intenso, flessibile ma non coercitivo, che permetta un adeguato spazio di riflessione per l’intera equipe, coinvolgendo anche gli operatori esterni alla struttura con cui il paziente entra in contatto. Un recente studio naturalistico ha evidenziato che, alla luce degli esiti nella sfera dei comportamenti impulsivi e dell’accettabilità e tolleranza dei pazienti al trattamento, il modello territoriale rappresenta una alternativa adeguata e a più bassi costi rispetto al trattamento ospedaliero a lungo termine (Chiesa et al. 2008). Queste indicazioni terapeutiche della proposta britannica possono forse aiutare nella riflessione relativa all’organizzazione italiana.
 
L’organizzazione italiana: dalla chiusura dei manicomi alle strutture intermedie
Le strutture di salute mentale italiane e la loro attuale organizzazione risentono di una storia dei servizi in parte differente dalla realtà britannica, e che ha condotto alla nascita delle strutture intermedie territoriali che vanno dall’ospedalizzazione alla ambulatorietà.
A partire dagli anni ’60 iniziò in Italia un periodo di critica e ripensamenti sulle strutture manicomiali, e si cominciò a riflettere sull’importanza di un supporto psicologico per gli utenti psichiatrici. Furono diverse le esperienze, anche molto radicali, volte alla chiusura e abolizione del manicomio e alla nascita di comunità terapeutiche all’interno degli ospedali psichiatrici (Basaglia 1968). Le idee alla base di questa nuova psichiatria, si rifacevano alle esperienze e ai principi del movimento comunitario iniziato da Jones e Main in Inghilterra. Nel tempo il dibattito si concentrò maggiormente sulla nascita di nuove istituzioni, nuove forme di cura della sofferenza mentale che non conducessero alla cronicizzazione della malattia. Veniva teorizzato il definitivo e totale smantellamento dei manicomi per passare ad una gestione territoriale, esterna, dei bisogni dei pazienti. La concomitanza dei due avvenimenti, l’approvazione della legge 180 del 1978 e la nascita del Sistema Sanitario Nazionale, iscrisse ancora di più la riforma psichiatrica nel più ampio quadro di riforma del sistema sanitario, in cui la tutela della salute mentale occupò un ruolo predominante.
In questa fase vi è stato un importante processo di migrazione dei pazienti dall’ospedale psichiatrico verso le prime strutture residenziali che cominciavano a nascere nel territorio. Si trattava di strutture con un minor livello di protezione e con finalità più spiccatamente terapeutiche e riabilitative. Tutte le situazioni di sofferenza psichica e di disagio sociale, prima gestite interamente dal manicomio, dovevano trovare una nuova riposta nel territorio, integrando varie agenzie nella presa in carico dei pazienti. È questo il momento storico e culturale i cui si è iniziato a parlare di strutture intermedie. Da più parti è stato evidenziato come le esperienze di deistituzionalizzazione del tempo utilizzarono i principi delle comunità terapeutiche principalmente per facilitare il processo di chiusura dei manicomi, ma a questo raramente seguì la realizzazione di apposite strutture alternative (Foresti et al., 1998; Berti-Ceroni e Correale, 1999).
Le prime comunità terapeutiche italiane sorsero prevalentemente in funzione dei pazienti gravi, psicotici che rappresentavano la maggioranza dell’utenza manicomiale. Questo aspetto contraddistingue, ad esempio, le comunità italiane da quelle nate in Inghilterra che inizialmente si occupavano di pazienti nevrotici, reduci di guerra e personalità psicopatiche. Un aspetto dei servizi, che si è fondato a partire da quel momento storico, ha riguardato la possibilità di creare strutture territoriali che potessero accogliere in un unico setting tutti i bisogni di tutti i pazienti. È ipotizzabile che, nel clima di quegli anni, l’analisi e la codifica dei bisogni dell’utenza avesse ceduto il posto al fervore di rinnovamento delle istituzioni. Oggi, forse, è diventato cruciale poter ripensare all’importanza della valutazione e dell’idoneità di alcune strutture di fronte alle nuove problematiche e ai diversi disturbi psicopatologici con cui i servizi devono lavorare. Questo probabilmente significa anche poter pensare a forme di setting adattabili e flessibili per fare fronte con maggiore efficacia ad un’utenza diversificata con cui gli operatori si interfacciano. La patologia presentata dai pazienti borderline necessita di interventi a medio o a lungo termine, una costanza e coerenza di approccio terapeutico da parte dell’equipe curante, un focus sugli aspetti interpersonali e un adattamento alle caratteristiche evolutive del disturbo borderline (Bateman e Fonagy 2004). La mancanza di flessibilità nella organizzazione dei servizi nel rapportarsi a patologie specifiche, presente nel panorama italiano, porta all’‘offerta di funzioni “simmetriche” rispetto al bisogno indilazionabile manifestato dal paziente, a breve termine e ad andamento discontinuo (...) con evidenti conseguenze sfavorevoli sugli esiti e sui costi del trattamento’ (Bassi 2008) .
Le esperienze nate dopo la legge 180, nate a volte in modo non omogeneo sul territorio nazionale, sono in realtà servite per strutturare quello che oggi è il Dipartimento di Salute Mentale entro cui si articola tutta l’offerta dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione psichiatrica per il cittadino. Il dipartimento gestisce la coordinazione tra i vari livelli terapeutici di un progetto, che si articolano poi all’interno delle singole unità operative territoriali (centri diurni, comunità etc..).
Probabilmente, le riforme del sistema sanitario successive alla 180, come quella che ha previsto la sua aziendalizzazione, non sono nel tempo riuscite a definire degli obiettivi di priorità riguardo a specifici quadri psicopatologici, e questa sembra essere una caratteristica distintiva, e in parte una risorsa, del sistema italiano in cui i servizi si rivolgono e sono a disposizione di tutti i cittadini senza particolari selezioni. Diversamente dall’Italia, le strutture maggiormente specializzate nell’assistenza di determinati disturbi, come il Cassel Hospital, presentano dei chiari criteri di inclusione ed esclusioni dai trattamenti.
Gli strumenti di cui si è dotata la psichiatria comunitaria italiana, dalla chiusura dei manicomi in poi, seppur rivolti ad un bacino d’utenza allargato rispetto alle esperienze straniere, forse, non sono rimasti immuni dal pericolo di ricreare degli ambienti cronicizzati e cronicizzanti, sia per l’utenza che da sempre ruota attorno ai servizi, sia per le diverse tipologie di disturbi che sempre più arrivano all’attenzione dei centri di salute mentale.
I disturbi di personalità, e in particolare i pazienti con un disturbo borderline di personalità, potrebbero essere più inclini ad entrare in un circuito di “nuova cronicità” tra i servizi, pur non essendo passati per l’istituzione manicomiale. Una condizione di cronicità caratterizzata da un’inadeguatezza degli interventi proposti che si incastra negativamente con le caratteristiche cliniche del paziente borderline. Ci si chiede allora, rispetto a quanto evidenziato dal modello del Cassel, se una vasta gamma di servizi, non coordinati e in sovrapposizione, non possa nascondere il rischio di trasformarsi in un’eccessiva frammentazione delle risposte terapeutiche. Una cattiva coordinazione tra le risorse territoriali potrebbe condurre a irrigidimenti su schemi, regole e procedure propri di ogni ente, non riuscendo in questo modo ad accogliere la richiesta di aiuto del paziente borderline. Come è stato evidenziato di recente in alcuni lavori curati da Vigorelli (2005), i servizi dovrebbero riuscire a programmare degli interventi che partano dalla comprensione della “stabile instabilità” della condizione borderline. Comprendere questo può aiutare a prevedere il coinvolgimento coordinato di più figure professionali che riescano ad integrare i vari interventi.
Caratteristiche di un intervento territoriale per pazienti borderline
Nella strutturazione di un intervento rivolto ad un’utenza borderline, probabilmente è importante avere a mente una serie di dati e considerazioni che arrivano sia dalla ricerca in psicoterapia che dal lavoro di numerosi psicoterapeuti e psicoanalisti che hanno permesso di approfondire la comprensione di questo disturbo.
Diversi autori si sono occupati di sottolineare gli aspetti principali dei trattamenti rivolti a questi pazienti, descrivendo alcune caratteristiche dell’intervento che sembrano trasferibili e utili in questa riflessione sui servizi territoriali italiani.
Uno degli aspetti su cui i trattamenti a lungo termine nel territorio, come l’Outreach Programme del Cassel, sembrano incidere maggiormente è la difficoltà del paziente borderline di vivere e gestire la separazione dall’istituzione. Questa fase è spesso accompagnata da un forte sentimento di intolleranza alla solitudine, evidenziato soprattutto dalle ricerche e gli studi di Gunderson (1996), che si manifesta in passaggi all’atto e ricadute sintomatologiche. Secondo l’autore il deficit presente nella tolleranza alla solitudine spiegherebbe la necessità di pensare a relazioni terapeutiche con i pazienti che si sviluppino in un lungo periodo, necessario per il recupero e l’internalizzazione di una diversa modalità di relazione. Impostare i trattamenti in questa ottica significa, secondo Gunderson, osservare nel tempo un’effettiva riduzione nell’utilizzo dei servizi sanitari e un cambiamento intrapsichico nelle aspettative verso le relazioni.
Per fare questo è necessario dunque mantenere un buon coordinamento all’interno dell’equipe e con gli altri referenti presenti sul territorio, così da riuscire a contenere gli aspetti più distruttivi degli agiti senza ricorrere a misure coercitive o ricoveri ospedalieri. La struttura organizzativa dell’intervento è perciò un’importante definizione che incide sul mantenimento di una visione stabile, coerente e prevedibile che premetterà lentamente al paziente di recuperare a sua volta stabilità e coerenza interna. Secondo Gabbard (2004), la stabilità della cornice terapeutica è determinata da fonti esterne rappresentate ad un estremo dagli ambienti ospedalieri e all’altro dai programmi meno intensivi, ambulatoriali. L’assenza di una tale struttura terapeutica, ben definita, rischia di tradursi in interventi caotici, dai confini poco chiari che provocano eccessi di proiezioni e regressioni nel paziente.
Ugualmente importante è il mantenimento di una buona coerenza e costanza del trattamento. Questo aspetto, sottolineato ad esempio da Kernberg (1996) e da Bateman e Fonagy (2006), è uno spunto interessante di riflessione per l’equipe troppo spesso esposta a fenomeni di splitting o spaccature. Lo stato confusionale e di disorganizzazione che ne scaturisce rispecchia le profonde e disarmanti scissioni interne del paziente borderline che vengono agite e proiettate sui responsabili terapeutici.
Il grado di flessibilità interna al trattamento è un aspetto che, se presente nelle menti degli operatori in termini di disponibilità a stabilire alcuni compromessi sulla terapia, può risultare efficace nel prevenire precoci interruzioni del trattamento ed evitare che nel paziente si intensifichino rappresentazioni rigide del sé e degli altri.
Allo stesso modo è importante che l’intervento proposto abbia un livello di contenimento tale da riuscire, almeno inizialmente, a stabilizzare gli aspetti fortemente caotici del funzionamento sociale e intrapsichico del paziente borderline, così da ridurre la presenza di comportamenti autolesivi e impulsivi. In questo senso sembra incidere positivamente, ad esempio, un breve periodo di ricovero ospedaliero o di residenzialità in una struttura comunitaria.
Cercando, perciò, di calare queste caratteristiche nella realtà italiana dei servizi, probabilmente le comunità terapeutiche possono rappresentare il primo livello di intervento. Le ricerche portate avanti dal Cassel, e in generale nel panorama internazionale, hanno evidenziato la maggior efficacia terapeutica dei trattamenti con una breve residenzialità a cui segue un intervento terapeutico territoriale a lungo termine. In questo senso le comunità sono forse le strutture adeguate per pensare un periodo di residenzialità in cui poter stabilizzare e insieme comprendere i fenomeni di polarizzazione, scissione, acting-out così frequenti nei pazienti borderline. La residenzialità può essere pensata come momento di approfondimento nell’esplorazione delle dinamiche del paziente così da permettere una chiara pianificazione successiva di interventi gradualmente più flessibili.
Come è stato sottolineato da Correale (1991) rispetto ai ricoveri ospedalieri, se il reparto, e in questo caso diremmo se il periodo di residenzialità presso una comunità, non permette di vivere un’esperienza di contatto e di integrazione, si connoterà rapidamente di elementi segreganti, tipici delle istituzioni manicomiali. Quello che è importante sottolineare è che l’intervento non dovrebbe esaurirsi con il ricovero e non dovrebbe diventare a lungo termine prolungando la residenzialità. Dal periodo comunitario deve infatti scaturire anche la possibilità di impostare una rete di relazioni terapeutiche con altre agenzie del territorio, come viene illustrato, ad esempio, nel lavoro di Cecere e Ciocchetti (2003), che propongono una riflessione sui benefici di un continuo monitoraggio delle proposte terapeutiche attraverso il confronto e la discussione clinica con gli operatori di più servizi coinvolti nel percorso terapeutico di una paziente borderline.
I setting multipli, e il coinvolgimento di più strutture territoriali, possono funzionare per il paziente come contenitore di ansie e paure legate alla separazione, permettendogli al tempo stesso di sviluppare un buon livello di autonomia e indipendenza. Questa gestione allargata e prolungata nel tempo, questo “policentrismo terapeutico” (Correale 2006), permette probabilmente di rispondere in maniera adeguata alle paure e difficoltà del paziente borderline e di intervenire efficacemente anche a livello socioterapico, in un momento successivo alla residenzialità, come viene proposto sia nei modelli del Cassel che nei suggerimenti esposti da Gunderson (2003) per la strutturazione di un intervento efficace. Si creerebbe così una alleanza terapeutica distribuita ed estesa in luoghi e interventi diversi continuamente ricomposti e tenuti a mente degli operatori della comunità. Questo aspetto è importante anche a fronte delle considerazioni fatte sulle situazioni di cronicità e gravi psicosi a cui solitamente e storicamente i servizi italiani sono adattati. Si tratta di condizioni molto diverse da quelle del paziente borderline caratterizzate invece da continue intermittenze e discontinuità nei trattamenti.
Un intervento così “diluito” richiede sicuramente la presenza di spazi di riflessione e supervisione per gli operatori coinvolti nel progetto, uno spazio che permetta di prevenire e comprendere risposte controtransferali antiterapeutiche, la cui presenza nei setting residenziali è stata sottolineata anche dalle ricerche del Cassel Hospital. Le situazioni di impasse, generatrici di circoli viziosi fatti di azioni controproducenti e dannose che limitano il pensiero terapeutico, sono state analizzate da diversi autori che vedono nella supervisione uno strumento importante, introdotto nell’organizzazione istituzionale, per comprendere difese, fantasie e blocchi dell’equipe (Vigorelli 1994).
 
Conclusioni
Per concludere è forse importante sottolineare come l’apporto della ricerca possa aiutare i servizi, e gli operatori coinvolti nei trattamenti, a comprendere e approfondire le componenti intrapsichiche dei pazienti così come quelle riguardanti l’istituzione e lo staff. L’esempio del Cassel Hospital offre uno spunto di riflessione sull’importanza di pensare l’attività di ricerca come risorsa costruttiva e creativa per le strutture. Affiancare la pratica clinica alla ricerca permette anche di pensare a nuove soluzioni e nuovi interventi terapeutici sempre più aderenti alle richieste di una particolare utenza, ed è probabilmente nei confronti di questa nuova utenza che le strutture del sistema italiano, pur mantenendo un assetto principalmente generalista, dovrebbero però far convergere in modo sinergico il lavoro terapeutico di più servizi territoriali.
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[1] Dottoressa in Psicologia dinamica e clinica della persona delle organizzazioni e della comunità, Roma - silvia.santiccioli@hotmail.it

[2] Primario Psichiatra, Cassel Hospital, Richmond TW10 7JF, UK - m.chiesa@ucl.ac.uk

[3] Il Mental Health Act del 1983 definì le modalità di ricovero negli ospedali psichiatrici per le persone con patologie più severe, senza lasciare linee giuda per tutte quelle strutture intermedie, day hospital, ambulatori, comunità, a cui in modo crescente si rivolgevano utenti con diverse patologie.

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