GRUPPO DI STUDIO PER IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

BORDERLINE: MALATTIA SOCIALE ?

Antonello Correale e Marta Vigorelli

Incontro scientifico del 20 ottobre 2007 (a Bergamo)

 

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Antonello Correale. Vorrei subito dire che non mi sento assolutamente in grado di dare un giudizio sulla nostra società e sui suoi mali, perchè, al di là delle impressioni, sono discorsi troppo ampi per poterli trattare, per lo meno da parte mia. Quello che posso fare, e che mi sento di fare con voi, è di aprire un dibattito: è possibile dai nostri casi clinici evidenziare alcuni nuclei problematici, alcune tematiche chiave che siano per così dire aperte da due parti, cioè ci aiutino a spiegare la clinica, col singolo paziente, ma anche ad indagare alcune tematiche più collettive, partendo dall’individualità per arrivare anche alla dimensione collettiva?
Questa mattina vorrei proporre due o tre di questi concetti chiave e vedere se ci aiutano ad affrontare il problema del borderline come malattia sociale, o del disagio sociale che favorisce certe malattie o per lo meno ne facilita la manifestazione.
Un’altra premessa riguarda una filosofa americana, Nusbaum, che ha scritto un libro molto bello: “L’intelligenza delle emozioni”. Lei sostiene una tesi che a me sembra molto interessante: uno dei compiti della filosofia è di estrarre dalle teorie alcuni concetti generatori, concetti chiave, idee guida vive, che non siano però idee chiuse ma idee aperte, che possano dilatare il discorso, allargarsi nella mente e produrre altre idee di conseguenza. Sono concetti nucleari che caratterizzano il pensiero dei grandi filosofi in generale, senza ridurre tutto a formulette, ma implichino anche alcune concezioni cliniche.
Su questo compito di rigore metodologico che offrirebbe la filosofia e di questi concetti ponte io ve ne vorrei proporre sostanzialmente tre. Forse potremmo dire che si potrebbe riassumere tutta la teoria, il trauma originario, la perdita di filtri, la risposta al sentirsi vittima di un’ingiustizia che promuove a sua volta dei comportamenti ingiusti, violenti, terroristici e provocatori, la sensazione che la vita vada male così come è e che bisogna cambiarla, ma che l’unico modo per cambiarla sia la rabbia, la polemica, la rottura, l’impulsività; l’impossibilità di attendere, di procrastinare, la non virtù della pazienza...Io vi vorrei proporre che ci sia un concetto chiave, che potrebbe essere quello di nudità che è sia il manifestare una propria modalità interiore, intima, senza veli e quindi sbatterla in faccia all’altro. Questo comporta la seduzione, l’eccitamento, l’avvicinamento indebito, una certa precipitosità, ma anche il fascino: la nudità è, in una certa misura eccitante e affascinante, ma anche spaventosa o terribile in un’altra misura. È proprio in questa valenza dell’essere esposti direttamente che sta il suo fascino e il suo terrore, l’attrazione che suscita e il timore che suscita.
Mi pare però che nella nudità ci sia anche un altro concetto: l’idea di essere esposto a tutti gli stimoli senza filtri. Tutto arriva direttamente sulla pelle, non c’è un’armatura, un guscio, una protezione, un intermediario, un’intercapedine. Questo d’altra parte è confermato anche da molti studi di tipo neurofisiologico. Tutti questi disturbi sono caratterizzati dal fatto che queste persone non sembrano in grado di modulare la ricezione degli stimoli. Tutti gli stimoli sono eccessivi, sono troppo potenti, sono come amplificati. Se uno volesse fare un discorso neurofisiologico si potrebbe dire che i potenziali corticali sono sempre il doppio di quelli cosiddetti normali. Sono troppo alti: tutto rimbomba, un suono rimbomba, una voce rimbomba, una vista è troppo potente, un dolore è lancinante, un eccitamento è travolgente. Questo effetto di nudità come qualcosa che viene ferito esageratamente è qualcosa che però si capovolge nell’offrire anche all’altro questa nudità come un attacco, come una seduzione, come una testimonianza di questo modo di essere. Potrebbe essere un concetto che ci aiuta a riassumere una valenza esistenziale del modo di vivere del borderline. Per il borderline tutto è troppo puntuto, violento, aggressivo, tutto è duro. Si potrebbe dire, volendo usare un linguaggio poetico, che la vita è rocciosa e gli esseri umani sono fatti di pietra, sono duri, non c’è la tenerezza di cui si parlava l’altra volta. C’è il sesso, che può essere molto eccitante ma anche molto duro se non è corredato con l’altra parte che lo rende umano che è il difficile connubio fra tenerezza e sessualità. È un tema che il borderline risolve quasi sempre annullando uno dei due termini e buttandosi sull’altro. Anche la tossicodipendenza, la ricerca immediata di un piacere, di una soluzione, di una pacificazione possono rientrare in questa intolleranza al sentirsi nudi. Il guaio è che questa nudità viene capovolta nel suo opposto, cioè questa fragilità, questa esposizione diventa un modo con cui io capovolgo il rapporto e rendo nudo te. Chi credi di essere tu dottore che vieni a dirmi le cose della vita, io non credo alle cose che mi dici tu: fammi prima vedere come sei e poi dopo si potrà discutere se con te si può parlare oppure no. Naturalmente questo comporta anche un’aggressività, una violenza, addirittura certe volte uno scivolamento verso il disturbo antisociale, verso modalità delinquenziali, oppure una modalità tossicodipendente un po’ autistica che però è compensatoria, la sessualità promiscua, l’irritabilità, la litigiosità, la permalosità eccessiva, l’instabilità dei rapporti, insomma tutte le cose che conosciamo. Quindi: traumatismo, nudità, capovolgimento della nudità nel suo opposto; costituzioni particolarmente propense ad una reattività eccessiva, che in presenza di traumi originari sviluppano questa modalità di nudità aggressiva.
Questo secondo me suscita in noi, quando parliamo con loro, al tempo stesso quel senso di trepidazione, di protezione, di commozione anche nel vedere una vita così esposta e al tempo stesso questa fatica spaventosa di trattare con loro, questo desiderio che ci lascino in pace, che non ci stimolino continuamente, che non ci richiamino sempre a questa condizione esistenziale così fragile. Non possiamo essere sempre sollecitati da delle forze così potenti.
Questo concetto - la nudità - ci può aiutare, come concetto ponte come dicevo all’inizio, tra clinica e società? Può darsi che in qualche modo viviamo in una situazione in cui certe persone possono sentire con più facilità questa esposizione, questa mancanza di filtri, di meccanismi assimilativi della cultura, della modalità sociale e relazionale, della storia del passato e che quindi coprano questa nudità con modalità compensatorie molto poco funzionanti sul piano individuale, però funzionanti su quello sociale, prestandosi a imitazione, a comportamenti conformistici, per esempio, una ipertrofia del discorso del benessere, della felicità, del piacere, della facilitazione, una mancanza del meccanismo della procrastinazione, la perdita di un senso del tempo come prospettiva. Potremmo fare uno sforzo per collegare una certa modalità che in senso lato, sia chiaro, io chiamerei tossicomanica della nostra società, procuriamoci tutto il prima possibile, non pensiamo troppo al futuro, pensiamo all’adesso; quest’atteggiamento tossicomanico del siamo felici, siamo belli, siamo giovani, siamo allegri, stiamo bene, basta, stiamo bene! Questo stare bene potrebbe essere una copertura del fatto che sotto ci si sente molto feribili da qualunque cosa possa capitare perchè non ci sono dei filtri assimilativi legati alla dimensione culturale, scientifica, umana, antropologica o in senso lato religioso o spirituale, intendendo per spirituale la capacità di simbolizzare ampiamente l’esperienza, cioè di rimandarla ad un’ulteriorità, ad una dimensione associativa più ampia, ad un contesto di idee preesistenti. Questo è un primo spunto che vi volevo offrire. La nudità che diventa tossicomania. Come vedete non sto dicendo che la nostra società è una società in cui i giovani sentendosi nudi diventano tossicomanici, ma che forse questo concetto ci può aiutare a entrare nel problema.
Secondo punto: su questo ha parlato a lungo la volta scorsa la professoressa Vigorelli, ma mi pare un tema centrale.Ve lo volevo proporre ancora come un concetto chiave ampio, poi forse si può cercare di declinarlo più sulla clinica. Il concetto è quello di sradicamento, che credo che sia di Simon Weil, che forse molti di voi conoscono, una scrittrice e filosofa francese morta da giovane di tubercolosi subito dopo la seconda guerra mondiale, ebrea di origine poi diventata cristiana che si è occupata molto di problemi di politica, di cultura e di religione. Lei ha usato forse per prima, io l’ho incontrato in un suo libro che si chiama “La prima radice” l’enracinement (sul dizionario francese ho trovato deracinement), il radicamento e il suo contrario, lo sradicamento. Lei dice qualcosa di molto forte, molto interessante: lo sradicato diventa sradicante. Per noi il traumatizzato diventa traumatizzante, il borderline è una vittima che diventa persecutore. Che vuol dire lo sradicato diventa sradicante? Vuol dire che quando ci sono delle modalità che tendono a privare le persone della convinzione, sensazione, esperienza di far parte di un flusso di generazioni in cui un certo passato, sia pure rinnovantesi volta per volta, viene però trasmesso di generazione in generazione, se questa cosa si spezza, per esempio in un’immigrazione selvaggia, in uno spostamento eccessivo di popoli da una parte all’altra, in una ipervalorizzazione della cultura del presente che non tende più a valorizzare la cultura del passato (per cui servono soltanto le cose che servono per lavorare, per guadagnare, per fare strada e la spiritualità del passato è considerata inutile o lusso di pochi specialisti), tutto questo comporta uno sradicamento.
La persona vive faticosamente, dolorosamente, penosamente o, meglio ancora, angosciosamente, cioè in modo confuso e non consapevole, la sensazione di non avere una collocazione in un flusso di generazioni che si conseguono. Si vive in un tempo zero, si parte da qua, prima non c’è più niente. Quest’idea di stare in un tempo zero, in cui si parte da qua e prima non c’è più niente è tipica secondo lei dei popoli che tendono a lasciare la loro patria e andare in altre patrie, oppure di popoli che tendono a essere colonizzati da altri popoli e che vivono quindi l’angoscia che la cultura del popolo colonizzatore faccia fuori la cultura che c’è stata fino ad adesso nel popolo colonizzato. Sono fenomeni stranoti, mi rendo conto che non sto dicendo nulla di nuovo, però sicuramente tanti problemi anche della cultura contemporanea si possono vedere come angosce di sradicamento molto forti che certe culture vivono e a cui si risponde molto spesso con atteggiamenti violenti o autoritari piuttosto che cogliere fino in fondo la drammatica natura di perdita che possono avere certe situazioni.
Ma che vuol dire questo sradicamento in termini più clinici? Ho portato l’esempio dell’immigrazione ma anche nelle nostre società, dove pure l’immigrazione è un fenomeno gigantesco, esistono fenomeni di spaesamento e di perdita della sensazione che esista un passato che ci viene trasmesso. I mass media tendono a sottolineare quasi esclusivamente una dimensione del presente: è rarissimo che si parli di cose del passato. Perchè i genitori avrebbero paura dei figli e i figli dei genitori, cioè cosa si è rotto in questo passaggio da una generazione all’altra? Perchè si ha la sensazione che ci sia stata una cesura? Questo mi sembra un punto molto importante che dovremmo approfondire: il concetto di sradicamento è molto utile per i borderline ma forse è utile rispetto anche al contesto collettivo. Il borderline lo dice sempre: io non so bene cosa voglia dire la parola casa. Casa nel senso di muro con un tetto sì, però casa nel senso che torno a casa e lì ci sono mio padre e mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle, e io sono a casa mia, cioè c’è quella familiarità, quell’accoglimento, quella possibilità di riposo, di lasciarsi andare in un contesto che ti dice che adesso puoi staccare, puoi stare tranquillo. La casa del borderline è una casa dove si attacca, non si stacca, dove si entra e si comincia la battaglia. Casomai si sta meglio fuori ma dentro casa non c’è pace, c’è sempre allarme, tensione, timore, persecutorietà, permalosità, attacco, sospetto, critica. È difficile che ci sia una situazione in cui uno dice: vai tranquillo, adesso stiamo tranquilli. Chiamiamola tenerezza, pace o assimilazione.
Questo ordine, questa tranquillità è anche quella che permette che certe cose possano passare da una generazione all’altra. Non sono solo i ricordi di genitori e nonni, in questo tema di intergenerazionalità che mi pare stia assumendo un’importanza sempre maggiore nei nostri studi, ma anche l’idea che esista una cultura passata, l’arte del passato, la filosofia del passato, il mondo com’era, le culture che non ci sono più, anche il grande tema delle culture dei vinti e dei popoli scomparsi.
Noi stiamo soltanto in compagnia della cultura dei vincitori, le culture dei vinti non ci interessano più, sono scomparse e basta. Degli indiani d’America, degli Incas ci sono due o tre musei però non è che siano cose molto significative. Quest’idea che la generazione passata possa trasmettere alla generazione che viene qualcosa, poi vedremo che cosa trasmettere, è un’idea che nel disturbo borderline non è più presente, perchè mancano quei veicoli, tenerezza, amorevolezza, pace, ordine e significativa trasmissione di tranquilla pacificità. L’eterna guerra traumatizzante di queste famiglie impedisce un passaggio. Il borderline se è colto, se è lettore, artista, appassionato naturalista, di sport o di quello che volete voi se lo inventa da sé o con gli amici, ma è difficile che lo possa prendere da una tradizione perchè dai genitori gli viene soltanto un allarme.
La conseguenza di questo fenomeno è paradossale: il borderline anzichè accettare la sfida di dire: ecco, a casa si sta malissimo, me ne vado in giro per il mondo, più spesso accentuano l’attaccamento nei confronti delle figure familiari. Questo è paradossale: se uno seguisse una logica puramente razionale penserebbe: come mai uno che ci sta così male deve rimanere attaccato a queste persone? Invece succede il contrario: quanto più si sta male tanto più ci si attacca alla persona con cui si sta male. Forse perchè c’è un bisogno di compensare una paura terribile di questa tradizione che non passa, di questo calore che non viene dato. L’attaccamento si concretizza, cioè diventa sempre più fisico, sempre più concreto, sempre più reale, personale e immediato, sempre meno spirituale in senso lato, non in senso religioso, ma in senso ampio, mentale, affettivo e simbolico.
Allora si assiste a questo paradosso di persone sradicate come stato d’animo che si iperattaccano, ma non è un radicarsi, è un attaccarsi. Si appiccicano spaventosamente all’altro, se non ai genitori ai compagni, agli amanti, agli amori. Ci sono questi amori tempestosi, ma di fatto la figura chiave è sempre un genitore, un padre o una madre, in certi casi un marito, una moglie, un compagno di vita a cui ci si attacca con modalità insoddisfacenti: il famoso nè con te nè senza di te. Io sto estremizzando naturalmente, però penso che, in linea di massima, voi siate tutti familiari con questa modalità di uno sradicamento spirituale e affettivo che diventa un iperattaccamento concreto passionale. Questa è una modalità tipica del disturbo borderline e in genere dei disturbi di personalità di tipo impulsivo.
Se volete lo possiamo dire in un modo più romantico, poi spiegherò perchè mi sembra importante usare un linguaggio non troppo tecnico. Si potrebbe dire che il borderline tende a sviluppare delle passioni di tipo mortale, estenuante, violento. Passioni cioè che hanno lo scopo, la finalità di annullare momentaneamente questa tensione, come se fossero delle droghe che in realtà tendono a esercitare un dominio sull’altro, proprio perchè l’altro viene più usato che avvicinato. Mi servi per placarmi almeno stasera la mia tensione, facciamo l’amore, ci droghiamo, giriamo tutta la notte. È una modalità passionale di una passione che non corrisponde a un’intimità condivisa, ma a una specie di attaccamento violento e drastico.
Entrando in un discorso clinico si potrebbe chiedersi se queste passioni mortali sono legami isterici o legami perversi. Bisognerebbe fare tutto un lavoro di discriminazione clinica, io adesso sto parlando forse a un livello un po’ troppo generale. Ci tenevo a indicarvi come lo sradicamento non porti ad un’anaffettività, ma al contrario ad un’affettività passionale, ma in cui questa passionalità non ha uno sviluppo possibile, diventa come una specie di passionalità consumatoria.
Se volete si può parlare anche di amore e morte nel senso antico della parola: io cerco attraverso l’amore una morte pacificante, momentanea, un annullamento pacificante che mi porti fuori da me stesso e mi faccia dimenticare quest’ansia di base. Io credo che quando nei servizi si curano questi pazienti si abbia questa sensazione che quello che consuma anche noi operatori è l’essere oggetto di questo tipo di passioni, cioè di passioni che sembrano mirare più a un esaurimento della passione stessa, nel senso di consumarsi tutt’e due nell’incontro più che nella strada che si fa insieme. Come si può trasformare quest’idea dello sradicamento, con questo suo corollario passionale in un discorso più evolutivo, che non sia soltanto descrittivo?
C’è un concetto molto importante in psicoanalisi che in realtà non è soltanto in psicoanalisi. Come spesso succede la psicoanalisi esprime in modi più precisi concetti filosofici molto più antichi. Vi vorrei proporre uno spunto che deriva prevalentemente dalla Psicologia del Sé, che come sapete è uno sviluppo molto importante della psicoanalisi contemporanea ed è uno dei modelli più diffusi. Tra l’altro il modello della Psicologia del sé di matrice kohutiana è forse quello, non so se la professoressa Vigorelli è d’accordo, che ha più dialogato col cognitivismo, che si è posto di più il problema di una dialettica con le matrici cognitiviste, a loro volta più aperte alla psicoanalisi come quelle bowlbiane. Non so se si può dire che tra Bowlby e Kohut in qualche modo esista un qualche tipo di dialogo a distanza, comunque, sempre sulla falsariga dei concetti chiave, molto importante della Psicologia del sé potrebbe essere quello di struttura nucleare del sé, nucleo centrale del sé, struttura autoorganizzativa, processo costruttivo della formazione del sé.
Che cos’è questo nucleo centrale del sé? È intuitivo, è un nucleo originario della persona che tende all’autorealizzazione, da cui si diramano gli affetti e gli investimenti amorosi e affettivi. Se questi investimenti amorosi e affettivi non vanno bene si strutturano i meccanismi di difesa. Insomma il carattere si forma sul tentativo che ogni persona avrebbe di una specie di autoaffermazione e autorealizzazione che incontra più o meno ostacoli nevrotici, psicotici, caratteriali. A me sembra che questo concetto sia al tempo stesso troppo ampio e troppo limitato, ma comunque sia utile discuterlo almeno.
Di che cosa si sta parlando esattamente quando si sta parlando di nucleo centrale del sé? È molto ottimistico pensare che ognuno di noi abbia questa cosa dentro che va avanti nel mondo e che si individua: in realtà non è sempre così. Spesso si ha la sensazione che le persone se lo siano un po’ perso questo nucleo centrale, però è un concetto utile. Io ve lo vorrei proporre così: che il nucleo centrale del sé è anzitutto un essere fortemente radicati nella propria corporeità e nelle proprie emozioni. C’è qualcosa che nasce proprio da noi e che è l’emozione vissuta attraverso lo stare dentro il nostro corpo.
Qui ci viene in soccorso forse più che la psicoanalisi la fenomenologia e tutto il tema dell’esistenzialismo. Edith Stein in particolare si è occupata molto di questo tema del corpo proprio. Che cosa vuol dire corpo proprio? È il corpo in senso proprio e il corpo di propria proprietà. Proprietà nel senso che è il mio corpo e proprio nel senso che è proprio il corpo di cui si sta parlando. Però corpo non significa soltanto sistema biologico, neurovegetativo, viscerale, muscolare e osseo, che pure è una parte così importante della nostra vita. Corpo è il nostro compagno di strada da cui non ci libereremo mai. Non possiamo uscire dal nostro corpo, è il nostro tramite col mondo. La fenomenologia ha molto studiato questo amore-odio che possiamo avere per il nostro corpo, questo senso di essere imprigionati, antichissimo tema platonico “il corpo come prigione”. Al tempo stesso il corpo ci porta il piacere, l’energia, il desiderio, la passione, la percezione del mondo e di tutte le sue bellezze.
Ci vengono in aiuto non solo filosofi come la Nusbaum ma anche la psicologia dello sviluppo, con Stern e i nostri grandi studiosi della psicologia del bambino a comprendere come il corpo sia le emozioni. Le emozioni in fondo sono stati mentali vissuti attraverso il corpo: penso che, pur in una visione abbastanza semplificata dire così. La rabbia, il dolore, la vergogna, il disgusto da un lato, la passione, il desiderio, l’eccitamento, la speranza dall’altro devono esprimersi con una sensazione che si ha: di essere più leggeri, più dilatati, più pesanti, più vincolati... chi si innamora si sente le ali ai piedi, chi è bocciato a un esame si sente come se portasse un masso sulla schiena e così via. Le emozioni sono queste, poi ci sono i pensieri. Ma il pensiero per incarnarsi, per essere vivo ha bisogno di poggiarsi, di intrecciarsi con l’emozione e quest’ultima passa attraverso il corpo.
Allora, si può dire che ognuno di noi ha un suo corpo emozionale e che queste emozioni però non si limitano a reagire al mondo, contengono in sé una specie di spinta verso l’esterno. Questo è un altro grande patrimonio filosofico che Freud raccoglie. In fondo è il grande tema dell’eros di Platone che dice che gli esseri umani hanno una spinta. L’eros è una spinta verso l’oggetto, verso gli altri, a collegare, a unirsi, a connettere, a incontrarsi. Questa spinta è qualcosa per cui il nostro corpo e la nostra mente, che si intrecciano, tendono verso l’esterno. Sant’Agostino parlava di appetitus, Freud parlava di libido. Mi sembra che anche questi attacchi che vengono fatti alla teoria freudiana della libido, che sono giustificati se si adotta la libido come unico concetto, siano ingiustificati. Saltare a piè pari il concetto di libido mi sembra molto pericoloso perchè la libido contiene in sé proprio questa intuizione di una spinta verso qualcosa che non è soltanto il desiderio di essere riconosciuti, è anche il desiderio di qualcosa che sta sempre al di fuori di noi. È come se Freud avesse individuato che l’essere umano è di base inquieto ed è un bene che sia così. Poi c’è l’inquietudine patologica, eccessiva, ansiosa, quella borderline, quella psicotica, da assenza, da lutto. Una certa inquietudine da ricerca di qualcosa che sta fuori da noi è connessa con la natura stessa dell’impulso autoorganizzativo che c’è in noi. Se si perde quest’inquietudine, secondo me, si perde buona parte della vitalità. I fenomenologi parlano di soggettività trascendentale, cioè della tendenza a trascendere. Il discorso si può allargare molto. Questo dell’inquietudine è un tema che mi interessa molto.
Si può dire che lo sradicamento, dal momento che non c’è una possibilità di costituire un accoglimento culturale, storico, del bambino che nasce, consista nel fatto che non si offre una culla carica di memoria, di storia, di pensiero, di emozioni? Che in qualche modo questo bambino viva una sensazione di partire da zero, di non avere un alveo in cui nasce e in cui si sviluppa e che quindi questo impulso autorealizzativo, questo nucleo centrale del sé venga sottoposto a una sorta di coartazione fin dall’inizio. Non viene facilitata un’autenticità autorealizzativa, viene facilitata o una lotta continua o un conformismo aspecifico. Non si ascolta questo bisogno che ognuno di noi si metta in contatto con una sua componente potenziale, germinativa, originaria, in cui ognuno di noi va verso il mondo e dice: vediamo un po’ questo mondo che effetto mi fa? No, te lo dico io che effetto ti deve fare il mondo. Il figlio dev’essere un ricettacolo di un’angoscia genitoriale, che a sua volta è ricettacolo di un’angoscia genitoriale precedente.
Per concludere sul tema dello sradicamento, direi che comporta una lacerazione delle generazioni, che non è soltanto il fatto che non si riesce più a trasmettere il passato, ma non si riesce più, perché c’è una oppressione nella generazione precedente a trasmettere questo senso di un amore potenziale per le cose, di un andare verso le cose per recuperarne una freschezza, un’originalità, una scoperta, un valore.
Credo che questo sia un aspetto molto utile da discutere: sta succedendo questo nella società? A me sembra di sì, però bisogna discuterne. Nelle famiglie dei borderline sicuramente succede, ma succede anche più ampiamente nella nostra società? Io tenderei a pensare che un po’ succede. Il concetto è utile perchè ci permette di interrogarci alla luce di questa possibilità.
Mi pare che noi siamo in un mondo, in cui se si dovesse catalogare la patologia dei mass media, penso che tutti sarebbero d’accordo che si tratti di una patologia isterica. Hanno lo stesso meccanismo degli isterici, cioè teatralizzano tutto, isolano un singolo pezzetto senza studiare il contesto, iperemozionalizzano il particolare che diventa urlato. Si inquadra la mamma disperata, la lacrima della persona che ha perso un figlio come se la verità di quell’evento fosse soltanto il fatto straovvio che una madre che ha perso un figlio piange. Non è quello il punto fondamentale. Il dramma sta nel fatto che questa isterizzazione non permette una proliferazione della vita, della spirito, cioè un porsi un problema un po’ più ampio, una domanda su che cosa muove quella persona a fare quella o l’altra cosa. Non ci si interroga più sui moventi, ci si interroga solo sui fatti.
Quest’isterizzazione di massa non comporta di fatto un comportamentismo diffuso, una modalità comportamentistica di valutare l’essere umano? Non c’è il rischio che si perda la capacità di interpretare gli eventi, in nome di una pura e semplice fattualizzazione delle cose? Io non sono un esperto di mass media, ma mi pare che questo tema ci sia e che potrebbe aiutarci a spiegare perchè una diffusione massiccia di certi temi, il benessere, la ricchezza, la gioventù, la felicità, fatta con questa modalità, possa confondere la generazione passata e non permettere di trasmettere alla generazione che viene un altro modo di vedere le cose.
Di fronte a questo quadro, alcune figure tendono a invitare ad un ritorno ai valori. Ma come proporre questi valori? Come pure leggi? O li proponiamo come una capacità di ritornare alla matrice, per cui l’etica è di fatto prima una scelta, che un obbedire a una logica o a una regola. Siamo in grado di proporre questi valori come qualcosa che nasce da un orientare il soggetto verso l’altro, o è soltanto un fai così perchè altrimenti sbagli? Mi pare che anche questo sia un tema che potrebbe andare bene con il radicamento e lo sradicamento.
Per ricapitolare: lo sradicamento può essere legato al fatto che esistono nella nostra società condizioni di frettolosità, impazienza, pressione che impediscono di valorizzare da parte dei genitori nei loro figli la possibilità di sviluppare questo nucleo centrale, questa potenzialità germinativa, questa spinta verso l’altro. Al contrario vengono proposti modelli aspecifici, già dati e conformistici o nessun modello, come quando il figlio desidera spasmodicamente essere consigliato però riceve questo. Spesso e volentieri insomma si ha questa confusione, che comporta questa rottura di una capacità trasmissiva. Io penso che anche questo possa essere un modo utile di pensare alle cose.
Dobbiamo però essere modesti e non arrivare subito a una diagnosi. Possiamo considerare se questo concetto di sradicamento con queste modalità ci aiuta a interpretare un po’ meglio quello che succede tra generazione dei genitori e generazione dei figli.
Volevo dire un’altra cosa importante: a me pare che un tema importante sia quello del linguaggio. Non pensate che noi dovremmo usare molto di più il linguaggio comune rispetto a quello specialistico? Questa è un’idea che mi ha dato Boccanegra. Egli cita Wittgenstein, che dice che il linguaggio comune possiede potenzialità sconosciute che noi non valorizziamo del tutto. Questo mi sembra importante. È necessario che noi usiamo il nostro linguaggio: impulsività, disregolazione degli impulsi... È necessario che usiamo un linguaggio preciso fra di noi perchè è il linguaggio della scienza che non è da mettere in discussione perchè manda avanti le scoperte. Quando invece si parla a un altro livello, come quello con i pazienti o a livelli formativi, parlare di passioni, di amore e morte ridiventa importante. Dobbiamo dare un po’ di carne e sangue ai discorsi che facciamo, non possiamo limitarci a un linguaggio troppo asettico, ben sapendo che il linguaggio letterario e poetico è qualcosa che avvolge il linguaggio strutturale, non lo può sostituire.
Questo riguarda anche chi lavora nei servizi, dove si parla sempre dei modelli. Si chiede di che scuola sia il collega psichiatra, o di che tipo di psicologo si tratti, se sistemico, psicodinamico, psicoanalista, di quelle scuole, kleiniano, kohutiano e così via. C’è sempre l’importanza di definire con grande chiarezza di tipo di modello fa uso quella persona. Questo ha importanza, perchè ne hanno i modelli.
Spesso poi i kleiniani vanno con i kleiniani, i kohutiani con i kohutiani, i sistemici con i sistemici, i cognitivisti con i cognitivisti e si creano tutte queste scuolette che nei servizi spesso sono negative perchè spesso creano spaccature, antagonismi e competizioni. Il problema non è tanto di confrontare i modelli, cosa importantissima peraltro, ma anche di chiedersi se sia possibile usare altre discipline, per esempio la filosofia, la poesia, la letteratura, l’arte in modo che rispecchino i modelli che noi usiamo e si possa vedere il nostro modello con un altro linguaggio. Questo linguaggio ci fa vedere che sono possibili dei ponti tra modelli che invece, se si utilizza il linguaggio del nostro modello, non sono più possibili. L’allargamento contaminante a un’altra disciplina non è un lusso di fantasia perchè è più divertente ed interessante parlare di Flaubert che di Kohut, ma perchè Flaubert ci può aiutare a capire meglio che cosa ciò ha detto Kohut. Quando si parla fra di noi bisognerebbe trovare delle modalità formative che non siano soltanto la trasmissione dei modelli, ma una trasmissione di modelli incarnati, arricchiti, potenziati da una cultura umanistica, antropologica, letteraria e poetica. Essa non dev’essere alternativa al modello ma deve dargli carne. Il modello potrebbe essere lo scheletro, la poesia, la letteratura, l’arte, la filosofia potrebbero essere i muscoli e il sangue. L’uno ha bisogno dell’altro: non si può proporre solo una metafora letteraria, ma non si può proporre neanche soltanto un modello mentale puro e semplice, perchè altrimenti diventa rigido.
Forse questo può far parte del discorso sui borderline e sulla malattia sociale, in quanto nella nostra società si va verso un riduzionismo sempre maggiore in nome di un’ipersemplificazione dei concetti. Anche tutti questi discorsi sulle verifiche delle prassi che si fanno sono importanti, ma bisognerebbe studiare delle verifiche che non siano esageratamente coartative rispetto a quello che si fa. Forse anche questo riduzionismo, che io prima chiamavo comportamentismo, fa parte di uno sradicamento. Ci si sradica rispetto a un linguaggio più umano, più naturale per accettare un linguaggio che sia ipersemplificato, iperrapido, ipercomunicativo. Quando si viene chiamati in televisione la prima cosa che si richiede è di dire quella cosa in due minuti, magari la teoria dell’inconscio di Freud. Noi ridiamo ma loro non ridono: considerano assolutamente naturale questa cosa, perchè fa parte del modello delle comunicazioni di massa in cui tutto va reso facile, chiaro, sloganistico, la complessità è aborrita, la semplicità massima è considerata il valore principale.
Passo al terzo punto, dopo aver parlato dello sradicamento. Il terzo punto è quello della genitorialità, sul quale però non mi sento di dire molto. Penso che sia uno dei problemi della nostra società il fatto che i genitori non riescono a sapere cosa fare dei figli, che cosa dire loro, li lasciano troppo liberi o li coartano troppo, li conducono troppo o troppo poco, non sanno quali valori passare. Sicuramente nel tema della genitorialità c’è tutto il tema dello sviluppo infantile. La mamma col bambino è forse il modello che è stato più studiato. Non credo però che si possa ridurre la genitorialità all’accudimento di un bambino da parte di una madre. Certo, quella è la base, e benedetti gli studi che ci dicono tante cose su questo argomento. Ci hanno aperto gli occhi su moltissimi punti: la regolazione affettiva, lo sviluppo dell’immaginazione, la solitudine, il rispecchiamento, il riconoscimento, la tenerezza, la sensualità e la sessualità come due aspetti distinti. Penso però che sia molto importante porsi il problema della genitorialità coi figli adulti: di questa si parla di meno, ma uno è genitore sempre, non soltanto quando il bambino ha sei mesi. I figli adulti non per questo hanno meno bisogno o meno amore o legame con i genitori, anzi certe volte hanno un legame ancora più forte, ma di tipo tutto diverso. Non è il legame da dammi da mangiare, fammi dormire, fammi divertire, ma da aiutami a capire come pormi di fronte alla vita, cosa ne pensi tu, cosa ne penso io e vediamo un po’. Io penso che questa tematica della genitorialità andrebbe studiata, anche alla luce dei nostri pazienti (ce ne parlerà tra un po’ la professoressa Vigorelli), per vedere se queste tematiche sono estendibili da queste famiglie a una modalità più generale.
Sicuramente uno dei temi della genitorialità è la trasmissione di alcune ricchezze del passato. Noi crediamo che il passato sia qualcosa da cui si possono estrarre tante cose e che quindi non si debba liquidarlo troppo facilmente, perchè è un enorme patrimonio che noi abbiamo. Questo riguarda sia il nostro passato personale, sia il nostro passato culturale nazionale, europeo, mondiale, religioso, scientifico, artistico, letterario. Ho l’impressione che non ci sia una grande consapevolezza di questa ricchezza, di questo patrimonio. Andrebbe studiato questo tema: come mai c’è questo timore di affidarsi al passato come a un patrimonio da utilizzare, non come a un modello da copiare, come a un patrimonio dal quale estrarre idee e concetti, spunti, esperienze. Questo è un punto molto grosso.
L’altro, forse più ancora, è ancora della Nussbaum. Il genitore che si avvicina al figlio dovrebbe passargli qualcosa che si potrebbe chiamare una curiosità amorosa per la vita, come dice lei. Non si tratta tanto di dire si fa così. Certo, quello è importante perchè la morale è anche leggi. Ma, più ancora, quando vai verso l’altro, verso il mondo io ti aiuto a trovare uno sguardo sufficientemente libero, per rinnovare questo sguardo verso il mondo. Credo che questo sia il messaggio più importante che può dare un genitore, cioè un sostegno in questa faticosa libertà di andare verso il mondo. È anche complicato andare per il mondo liberamente, è molto più facile andarci con dei concetti preformati: questi però impediscono la formazione della creatività individuale. Questa idea che in qualche modo il genitore possa essere il compagno verso questo rapporto emozionale con l’esterno, con l’altro, a me sembra molto interessante.
La Nussbaum usa il concetto del fiorire, il flourishing. Se noi pensiamo che il figlio sia come una pianta che deve fiorire ci avviciniamo a questa pianta dandole l’acqua, le sostanze nutritive accettando però una dimensione di autoorganizzazione e di autocreatività, favorendo insomma il contatto tra la pianta e il mondo. Sono metafore molto vaste che però possono aiutare a capire la sua proposta. Credo che questo sia proprio quello che manca nelle famiglie dei borderline e in genere nelle famiglie delle persone con disturbi del carattere. Forse comincia a mancare in un po’ troppe famiglie.
In che modo i genitori da un lato si sottraggono a questo compito di accompagnare un figlio verso la libertà e dall’altro invece lo caricano di traumatismi, di angosce, di dolori, di temi per cui c’è la role reversal, l’inversione del ruolo e il figlio viene chiamato in qualche modo a fare da genitore al genitore, altrimenti il genitore è troppo triste, malinconico, preoccupato, geloso, disperato, affaticato. Questo capovolgimento dei ruoli può comportare una difficoltà a svolgere questa funzione determinando l’atrofia del nucleo centrale del sé.
Vorrei concludere dicendo che c’è un libro molto bello, che ho citato anche nel mio: un libro giapponese che si chiama “Il cuore delle cose”, di Sozeki, uno scrittore dei primi del secolo. È la storia di un figlio che cerca un padre, però questo non riguarda necessariamente i padri, va benissimo anche per le madri. Al di là dell’accudimento, della protezione, del calore, dell’alimentazione che sono funzioni fondamentali specialmente da piccoli, lui dice che essere orfani di un genitore può significare non avere avuto questa persona che ti aiuta a cogliere il cuore delle cose. Il cuore delle cose potrebbe essere appunto l’idea che le cose le si conoscono con un giudizio emozionale, oltre che con un giudizio razionale. L’emozione che ci suscita una cosa o una persona è un bene prezioso, a cui non si deve rinunciare facilmente, anche se quest’emozione non è conformisticamente accettata. Accettare questa freschezza del nostro modo di andare incontro alle cose era il dolore del protagonista di questo romanzo che diceva di non aver avuto un padre che lo aiutasse a fare quest’operazione, cioè andare nel mondo fiducioso di quello che ci avrei scoperto. Mi sembra un punto interessante.
Lo ripeto: sicuramente nelle famiglie sofferenti di disturbi del carattere, questa dimensione è atrofica perchè c’è il trauma intergenerazionale, perchè il genitore depresso utilizza il figlio come protezione della sua depressione, perchè c’è lotta in famiglia, perchè padre e madre non si sopportano però al tempo stesso stanno attaccati, insomma tutto ciò che conosciamo di queste famiglie. È possibile che qualcosa del genere si stia estendendo anche a un livello più sociale, cioè che la pressione conformistica della società, l’allarme circolante, la pressione dei mass media e i fenomeni di massificazione, di globalizzazione comportino una difficoltà a mantenere vivo questo specifico punto? Quest’apertura germinativa potenziale del rapporto con le cose? E che invece noi siamo sempre premuti verso un troppo rapido schiacciamento della risposta sulla domanda? Il bisogno dev’essere subito soddisfatto, la richiesta non deve rimanere sospesa neanche un attimo. Questo è il contrario della ricerca dell’emozione, che per essere riconosciuta ha bisogno di un piccolo scarto tra la domanda e la risposta. Se questo scarto viene regolarmente negato, come quando il bambino torna a casa ed accende il computer o la televisione, oppure esce e vuole subito un gelato. Come vogliamo capire questo? Evidentemente c’è un timore di creare questo scarto, una difficoltà a reggerlo con la fantasia, con l’immaginazione, con la storia, con il gioco comune.
Mi rendo conto di aver detto delle cose molto generali, però l’idea che volevo proporre era quella che se tiriamo fuori alcuni concetti di fondo, non chiusi ma aperti, non rigidi ma vivi forse essi ci possono aiutare ad affrontare il problema che abbiamo visto questa mattina. Sono concetti a metà fra la dimensione individuale, terapeutica e quella collettiva. Il concetto di nudità nel borderline, quello di sradicamento e di genitorialità sono molto ampi. Quello di genitorialità forse lo è fin troppo, ma forse questi concetti ci possono aiutare ad orientarci in questa tematica così difficile.

Intervento del pubblico. Rispetto a quest’ultimo punto che lei ha trattato sulla genitorialità mi interrogo su ciò che è di fronte agli occhi di tutti. Forse di soggetti borderline ne abbiamo tantissimi proprio perchè la famiglia attuale da un po’ di anni non ha più funzionato come la famiglia precedente che veramente era in grado di trasmettere valori, riagganciandosi alle tradizioni, al modo di vivere, alla cura dei valori, all’attenzione. Di sicuro questa famiglia sente che non è stata in grado di trasmettere questi valori e sicuramente ha generato molti soggetti borderline. Io mi domando che cosa genereranno questi soggetti borderline che saranno la famiglia di domani: figli psicotici?

Intervento del pubblico. Volevo tornare brevemente sull’immagine della nudità, nel senso che non mi pare un’immagine efficace per spiegare le percezioni del borderline, considerando che tutto sommato la pelle è il filtro naturale di ogni organismo vivente. L’essere nudi è quindi una condizione abbastanza naturale dove le sensazioni vengono nella maniera corretta. L’uomo ci aggiunge i vestiti per proteggersi meglio eccetera. Rende meglio l’immagine di questa patologia, a mio parere, la mancanza di filtri del borderline, dove in caso di pelle viva anche una sola carezza fa un male terribile. Il mio è solo un suggerimento sul tipo di immagine.

Correale. Sì, penso che in effetti bisognerebbe approfondire molto il tema dei valori. Credo che si tenda a pensare che ci sia stata un’epoca in cui le famiglie trasmettevano questi valori. Per esempio ai primi del novecento Freud ha costruito tutta la psicoanalisi su una critica della famiglia borghese, dicendo che la famiglia freudiana, chiamiamola così, creava nevrotici, cioè che la famiglia borghese dei primi del novecento era basata sulla rimozione, sul fatto che di certe cose non si poteva parlare. Voi direte che è meglio la nevrosi dei borderline, forse sì, però non so se sia mai esistito un momento in cui la famiglia teneva. Ci sono poi le famiglie patriarcali, quelle matriarcali, quelle dei popoli monogamici, poligamici. Credo sia più interessante chiedersi quale sia la specifica sofferenza della famiglia di oggi, dei tempi di Freud, delle famiglie poligamiche dell’Islam, in cui c’è una fortissima trasmissione di valori. È potentissima, ma è altrettanto potente la denuncia che questi valori fanno soffrire a altri livelli. Per esempio c’è il tema della donna nel mondo islamico. Questo è soltanto un esempio su cui c’è una vasta letteratura. Nella famiglia ebraica tradizionale, c’era un grande potere della madre che esercitava un controllo molto forte sui figli e che Woody Allen prendeva in giro nei suoi film. Mi sembra giusto chiederci verso quale patologia noi rischiamo di andare. Non condivido del tutto che ci sia stata un’epoca in cui la famiglia era quella giusta. Penso che come tutte le cose umane la famiglia abbia un grosso potenziale. È necessaria e a seconda delle epoche trasmette le difficoltà tipiche di quell’epoca. Certo, al momento attuale la difficoltà sembra particolarmente grave, perchè siamo in presenza di famiglie disgregate molto spesso e di una società che non sembra in grado di offrire a queste famiglie un aiuto. È anche questo il problema. Io non credo che la famiglia da sola possa far tutto, tenere tutto, sistemare tutto, aggiustare tutto. La famiglia è un nucleo della società, sia pure fondamentale.
A me piacerebbe discutere dell’amicizia: è un fattore importante del nostro mondo? Le associazioni politiche, culturali, sindacali tengono come un tempo? La scuola, le classi dove i bambini vanno a studiare, le università: certi temi disgreganti non passano soltanto attraverso la famiglia. Certo essa è come un nucleo di base e quindi è particolarmente importante indagare cosa succeda a quel livello.
Io prenderei la domanda trasformandola così: qual’è la specifica sofferenza della famiglia oggi? Non so se i figli di domani saranno psicotici ma penso di no, anche perché penso che la psicosi sia una malattia molto specifica, con delle caratteristiche specifiche. Azzarderei, ma faccio una battuta, che il rischio è che ci sia un’isterizzazione. Il rischio per il domani è che ritorni in primo piano l’isteria, intendendo per essa la teatralizzazione, l’esteriorizzazione dei comportamenti, una tendenza a valorizzare l’aspetto più che la sostanza, ad attaccarsi ad emozioni transitorie, superficiali, molto eccitanti sul momento ma poco durature. Secondo me questo è il rischio del domani, che, contrariamente a quanto si dice in giro, l’isteria possa riprendere piede come una forma di conformismo eccitato. Questo va però verificato.
Quanto al suggerimento sono d’accordo. Con la nudità intendevo dire la pelle come organo delicato, feribile, il dermografismo, se ci passo una punta sopra resta una traccia rossa. La pelle cioè non tanto nella sua versione protettiva ma di apertura al traumatismo esterno. Mi piace l’idea del decorticamento. Mi pare che il collega avesse capito perfettamente, anzi che si fosse sintonizzato forse ancora meglio con l’immagine su quello che volevo dire.

Intervento del pubblico. Riguardo a questi stimoli sulla contaminazione culturale mi viene in mente un libro che ho letto recentemente, di Johnathan Coe, “La pioggia prima che cada”. È la storia di situazioni di borderline di tre generazioni di madri. Mi sembra davvero molto significativo perchè, senza utilizzare un linguaggio di tipo psicologico ma molto pregnante, racconta di tre situazioni border. Ci sono queste madri che fuggono lasciando le figlie, e il racconto finisce con un trauma molto grosso: nel senso che la madre picchia violentemente la figlia e la fa diventare cieca.

Correale. La ringrazio, anch’io sono un lettore di questo autore, anche se non ho letto “La pioggia prima che cada”. Mi pare molto azzeccata la citazione: lui dice che con la Tatcher si sarebbe verificato in Inghilterra un fenomeno di sradicamento di massa. Lui denuncia questa proposta di una liberalizzazione massiccia, di mettere l’economia al primo posto, che peraltro ha arricchito in una certa misura l’Inghilterra, l’ha svecchiata per molti versi, come se il prezzo pagato per questo arricchimento fosse stato quello di uno sradicamento. Cioè questa corsa alla ricchezza, al benessere, al successo, all’accumulo di denaro avrebbe impedito gravemente all’ultima generazione, quella della Tatcher, di collegarsi con la precedente. Questo avrebbe portato a uno sbandamento molto grave. Il tema mi sembra proprio quello del libro che lei citava: la famosa Old England, criticabile per certi versi ma anche amata, perchè trasmetteva una forza, si sarebbe completamente frammentata in quest’operazione massiccia di rilancio di nuovi valori. Questo per dire che lo sradicamento non è soltanto legato alla trasmissione di popoli da una terra all’altra, che forse è la forma più plateale di sradicamento ma anche a delle gigantesche trasformazioni culturali che possono avvenire apparentemente senza che ce ne si renda conto.

Marta Vigorelli. Io mi focalizzerò in particolare su un aspetto della cornice che ha presentato Correale. Vorrei partire da un momento lirico leggendovi questo breve brano di Borges che è rivolto al figlio. Esso mette proprio in questione la vicissitudine transgenerazionale, che è il tema che vi ho portato lo scorso Aprile nel precedente corso di formazione. Conoscerete le “Rovine circolari”: c’è questo uomo che in modo affaticato e inquieto va alla ricerca di come sognare il figlio. È per lui una materia ostica, drammatica e complicata. A un certo punto afferma: “non sono io a generarti, sono i morti, sono mio padre, il suo, i loro maggiori, quelli che un lungo dedalo di amori tracciarono da Adamo e dai deserti di Caino e di Abele, in un’aurora così antica che ormai è mitologia, per giungere, midollo e sangue, al giorno del futuro, a quest’ora in cui ti genero. Ne sento l’affollarsi (di queste generazioni): siamo noi e tra noi sono con te i futuri figli nati da te, saranno gli ultimi insieme a quelli di Adamo e io sono essi. L’eternità sta nelle cose del tempo, nelle sue labili forme”. Questo modo di porre la questione del figlio come possibilità inanzitutto di desiderarlo, nel senso di cui parla Freud quando intende il sogno-desiderio come quella prima forma, quel primo abbozzo di un principio finalistico e teleologico del soggetto che è il risultato di un incontro soddisfacente tra il patrimonio che eredita e che Freud dice dovrà essere conquistato (sia ben inteso: non basta che venga trasmesso ma va riconquistato) e la propria individualità. Tra un potenziale vitale e la sua forma possibile. È come se Borges intuisse questa dimensione.
Ritengo che sia possibile comprendere a fondo la genitorialità se si tien conto di questo significato che ciascun figlio ha nella fantasia, in questo modo desiderante, conscio, ma consapevole anche di questo aspetto più inconscio dei genitori nell’atto di produrre il concepimento. Un aspetto terribile della nostra società è quello di perdere - mi ricollego al discorso dello sradicamento che ha fatto Correale - anche le radici inconsce oltre a quelle territoriali, relazionali e di appartenenza di questo desiderio, se pensate a tutta l’ingegneria che si sta in qualche modo mettendo in atto attraverso le grandissime scoperte della scienza relativamente a questa costruzione artificiale della creazione. Questa è un’altra area di riflessione molto interessante e al contempo di grande preoccupazione se naturalmente non viene utilizzata in senso umanistico, superando l’illusione di controllare la generatività in una direzione che mi pare sempre più orientata a una fantasia di autogenerazione, con il prepotente emergere di bisogni narcisistici, e di affermazione di sé solo in senso individualistico. Questo impedisce il riconoscimento dell’altro, del figlio come altro, dell’alterità, del figlio come diverso da sé. È una modalità di potere sul figlio che annulla anche il divario tra le generazioni; e questo vale non solo per le famiglie borderline ma più in generale. Da questo punto di vista mi pare che i processi di trasformazione che hanno investito la società di cui abbiamo parlato, la perdita dei riferimenti interni, lo sradicamento e di quelli che sono i garanti metasociali (ad esempio l’autorità), stiano attraversando tutt’e tre queste dimensioni: la famiglia, la coniugalità, e la genitorialità. In particolare la coppia: Vi ricordate Eiguer quando ne abbiamo parlato in Aprile? Il primo organizzatore è la coppia e i grandi passaggi che l’individuo deve fare sono quelli del lutto dalla propria famiglia di origine, dalla propria identità di individuo singolo (single) e la scelta del partner che spesso ha delle motivazioni non consapevoli, per approdare a questo quarto livello che è quello della genitorialità. Se si saltano dei passaggi noi lo vediamo quando i nostri pazienti arrivano nei nostri studi dopo che questi passaggi si sono collassati, per cui sono passati direttamente da una non separatezza dalla propria famiglia d’origine all’applicazione della genitorialità senza affrontare tutti questi passaggi. L’aspetto dell’assunzione della genitorialità diventa dunque sempre più fragile, abnorme, perverso e pervertito.
In particolare sono molto d’accordo con Correale sul fatto che la genitorialità risente di questo disagio profondo soprattutto rispetto al tema dell’identità. Questa è tutta una visione che io sento presente nelle origini della psicoanalisi e del pensiero di Freud per cui generare è al contempo identificarsi con qualcuno che nascerà e identificarsi anche con i propri genitori. Identificarsi, non trasportare fardelli inconsapevoli. Direi che la fragilità a cui assistiamo dell’assunzione del ruolo genitoriale risente oggi in un modo estremamente drammatico di questa incertezza dell’identità. Cito un bel lavoro di Daniela Lucarelli nel libro “Quale psicoanalisi per la famiglia” che vi consiglio, in cui si spiega bene il fenomeno per cui oggi i genitori hanno molto bisogno dei figli per rassicurarsi di un’identità che è sentita vacillante, non per generare processi identificativi e non come possibilità di esprimere una parte costitutiva della propria potenzialità psichica e biologica o come un dar forma a una continuità generazionale. I figli servono per dire: so generare, sono potente, sono capace io. Ciò che si sta perdendo, riprendo Kaes che si è molto occupato di questa tematica della transgenerazionalità e della continuità, è la forza libidica dell’identificazione, come principio del legame intersoggettivo, come materia prima delle istituzioni stabili, quindi non delle istituzioni in quanto tali, ma di quelle potenzialmente sane, protettive dall’angoscia, in quanto sufficientemente regolate dalla legge che colloca ciascuno al suo posto nell’insieme, una legge del cuore sia beninteso, una legge anche riflessiva, non una legge che reprime e comprime, dove c’è un posto di ciascuno nell’insieme.
Questo problema dell’incertezza, della fragilità identitaria porta i genitori a oscillare fra due movimenti, da un lato quello che tende a negare la specificità del ruolo, tutti i casi che ci arrivano in supervisione presentano costantemente queste situazioni in cui non c’è più la differenza tra le generazioni, tutto è confuso e la specificità del ruolo viene vissuta con paura; ci chiediamo però - e questa è la proposta del nostro incontro di oggi - c’è la possibilità di non ritornare al passato idealizzato ma di inventare possibilmente modi nuovi in questa situazione di trasformazione? Credo che questa sia la sfida del futuro.
Rispetto alla fragilità della genitorialità un problema che io vedo centrale nei pazienti sia in privato che dei servizi e in particolare nella patologia borderline è questo sentimento di insicurezza e di paura circa il riconoscimento del proprio ruolo, che però è anche la paura di accettare una sana e adeguata esperienza di dipendenza. Questa si trasferisce nei servizi ai nostri operatori che fanno fatica ad accettare la richiesta di dipendenza dei pazienti. È un fenomeno molto generalizzato purtroppo: i genitori sono sempre più insofferenti rispetto allo stare con questi bambini. Parto da loro perchè voi sapete che i primi tre anni sono quelli in cui si forma la nostra struttura psichica, anche se poi ci sarà possibile costruire legami in ogni fase della vita come sostiene la teoria dell’attaccamento. Io dico questo alle mie pazienti mamme con una certa fermezza, che è importante quello stare e quell’accettare che il bambino abbia bisogno di noi, nelle fasi ovviamente in cui è necessario. Si tratta di far vivere questo come un fatto naturale.
Paradossalmente in un’epoca che tende a ipostatizzare l’autonomia, le aspettative di riuscita e di successo, non c’è spazio, non ci sono neanche i luoghi per stare con i bambini, nè i tempi. Le mamme lavorano, tornano affannate, hanno da ritagliare il tempo tra una baby sitter e l’altra. C’è il manualetto che indica che bisogna giocare con i bambini, ma è tutto un artificio rispetto alla spontaneità dell’essere con il bambino nella dipendenza. Quindi assistiamo al fatto che si è passati da un conflitto generazionale molto potente negli anni del ’68 a un’inversione generazionale. Ci si mette al posto dei propri genitori inconsapevolmente con i loro fardelli e si richiede ai figli di fare i genitori, come è già stato accennato poc’anzi e questo è quello che Racamier chiama l’antiedipo, il saltare l’Edipo, o additittura la fantasia inconscie dell’autogenerazione. Nella pratica clinica vediamo spesso come i pazienti che sono magari adulti non hanno potuto fare i bambini, con i loro tempi, con le loro esigenze, con i loro bisogni. Correale parlava dell’accompagnamento al mondo ma io penso che per molti di loro divenuti pazienti non ci sia stata sufficiente protezione. Noi abbiamo bisogno prima di tutto di dare questa sicurezza e questa protezione. I figli poi ad un certo punto vanno anche da soli quando hanno ricevuto sicurezza e accompagnamento.
Un accenno al caso di Chiara che da piccola ha dovuto assorbire la depressione gravissima della mamma poi le pressioni di un padre borderline. Ho un certo numero di pazienti figli di genitori borderline, almeno di uno dei due compagni della coppia. Come sono questi figli? Sono pesantemente iper responsabilizzati: ad esempio quando Sara aveva diciassette anni e il padre non lavorava e girava come un nomade, pur venendo da una famiglia assolutamente benestante, si era messa a lavorare e a studiare di notte. Alla fine è scoppiata nell’attacco di panico classico che è il grande segnalatore di una struttura che si rompe nella duplice tensione tra separazione e individuazione. O si sostituiscono ai genitori in questo iperadultismo che poi fa ammalare, oppure sono dei figli borderline a loro volta. È difficile che una situazione così turbolenta procuri psicosi perchè possiamo dire che il debito delle famiglie tradizionali purtroppo, quindi non idealizziamole, è stata la psicosi spesso con l’antecedente della distanza emotiva, dei segreti e di cornici molto rigide.
Vediamo adesso un po’ di didattica. Quali sono in generale i punti di vista con cui affrontare questo problema della genitorialità borderline dopo questa premessa più ampia? Quali sono i risultati della ricerca soprattutto di un modello molto diffuso nei servizi che è il modello biopsicosociale che ha detto delle cose molto interessanti sui disturbi di personalità? Vediamo alcune osservazioni cliniche su coppie borderline e un’ipotesi di intervento (questa sarà la seconda parte del mio discorso). Il modello cui vi accennavo, quello di Joel Paris ci dice che ci sono dei fattori di rischio scientificamente provati per poter produrre la patologia borderline, che si manifestano su tre livelli. Uno è biologico e qui mi rifaccio al lavoro che riferiva Correale di Gabbard intitolato “L’interfaccia mente cervello nel disturbo borderline”, ora tradotto anche in italiano. Gabbard ha individuato la difficoltà nell’utilizzo della psicofarmacologia per questi danni dovuta al fatto che la compromissione che comporta questo disturbo è trasversale e intacca varie aree cerebrali, oltre ovviamente l’ippocampo che è il luogo della memoria di lavoro e della memoria a lungo termine, l’amigdala, la corteccia prefrontale che corrisponde al danno della mancata mentalizzazione e un circuito interessantissimo, esplorato di recente nei pazienti che utilizzano sostanze. Essi hanno questo disturbo della dipendenza che si manifesta anche spesso una dipendenza, (non quella positiva di cui parlavo prima), patologica delle coppie borderline, che corrisponde a una gratificazione, anche a livello biochimico. Questo ci fa intuire i motivi per cui è così tenace e così resistente questo meccanismo della ricompensa. Questo livello biologico che è a mio avviso un’area su cui sempre più in futuro ci saranno nuovi dati ed esplorazioni interessanti si collega a un secondo livello psicologico che ben conosciamo, collegato all’esperienza traumatica, agli stili comunicativi disfunzionali, a un attaccamento disorganizzato, disorganizzante e traumatico. Il terzo livello, provato scientificamente è quello per cui la destrutturazione dei valori tradizionali, tipica della società occidentale, la perdita di valore di alcuni modelli sociali è un elemento fortemente condizionante questa patologia. Le ricerche che abbiamo in realtà non hanno dei dati così incontrovertibili, anzi è difficilissimo isolare in esse l’aspetto eziologico, cioè l’origine del disturbo rispetto all’aspetto sociale. È però possibile individuare dei meccanismi che abbiamo già accennato, il tema dell’instabilità del tessuto sociale, i cambiamenti, le richieste eccessive che vengono fatte a bambini, adolescenti e giovani adulti le aspettative di una autonomia senza un momento naturale di dipendenza e di interiorizzazione di tutto quello che viene comunicato nei primi anni di vita. C’è un’esigenza di entrare nella società senza delle aspettative prevedibili come accadeva prima e dentro a ruoli difficilissimi a cui accedere: mi riferisco per esempio alla difficoltà di entrare nel mondo del lavoro per i giovani attuali che è un problema veramente drammatico. Pensate che dal punto di vista delle ricerche è stato riconosciuto come un elemento fondamentale il recupero del ruolo sociale o la perdita del ruolo sociale e lavorativo proprio per questo tipo di patologia, molto più che per quella psicotica. Vediamo pazienti borderline che con la perdita del ruolo sociale e del lavoro hanno acuito tutte le tendenze e le dipendenze patologiche mentre il recupero, anche attraverso la psicoterapia, almeno di questa area è fondamentale per poter mantenere un minimo di assetto di stabilità. Poi essere nel mondo del lavoro significa avere delle relazioni, quindi occorre aiutare i pazienti ad essere in grado di gestirle. La difficoltà che c’è attualmente di entrata nel mondo del lavoro dal punto di vista di questi giovani è un altro elemento su cui riflettere e non a caso i nostri servizi operano molto in questo senso innestando questa problematica dentro una visione globale del processo terapeutico, perchè se fosse scissa in modo meccanico questi pazienti andrebbero a lavorare facendo disastri e tornando indietro.
Un altro meccanismo che la psichiatria sociale ha evidenziato e che notiamo in tutte le situazioni di coppie borderline è quello ripreso da Durcheim che è il concetto di anomia sociale, cioè di assenza di regolazione, o di regole pervertite o senz’anima, senza cuore, ma in particolare un’assenza o una contradditorietà delle regole. Abbiamo già parlato della disgregazione e del fallimento del funzionamento familiare, così come delle relazioni traumatiche. Vi volevo ricordare questo dilemma costante tra le richieste eccessive che vengono fatte a questi giovani, con la mancanza di questa fase precedente e l’assenza di regole che rende sempre più difficile raggiungere questa autonomia.
Vediamo un affondo più specifico sul tema della coppia, come vi avevo accennato nel titolo. Una cosa che davvero stupisce, osservando sia l’esperienza nei nostri studi privati che nei servizi è il notare come certi legami che Correale definiva passioni mortifere, abbiano un tenacia e un accanimento nel tempo, che è al di là delle terribili conseguenze che comunque queste relazioni procurano ai partner della coppia. Uno spunto che viene pensando alla teoria dell’attaccamento disorganizzato è quello di riconoscere in queste coppie un nucleo che ha a che fare con una sorta di terrore senza sbocco vissuto nella coppia, quello per cui il partner è comunque una base d’appoggio, di attaccamento e al contempo è anche l’emanatore del terrore. Su suggerimento sempre di una lettura comune con Correale ci sono delle espressioni di questo romanzo di Roddy Doyle, “La donna che sbatteva nelle porte” che rendono in modo assolutamente incisivo questo stato, quello per cui queste coppie ammettono contemporaneamente: mi amava e mi picchiava, io lo amavo e mi facevo picchiare, non riesco a tenere separato l’amore dalle mazzate. Questa frase condensa tutta questa drammatica passionalità, spesso sadomasochista e questa inscindibilità dell’amore con questo elemento violento. E molto spesso è quanto ci capita sotto gli occhi. Gabbard ipotizza che queste relazioni, e qui passiamo dalla letteratura alla scienza, siano così costrittive, così in qualche modo inesorabili e ripetute, dipendenze quindi di tipo patologico perchè hanno una componente di tipo consolatorio. Attraverso valutazioni con la PET e la neuroimaging si è riscontrato che nel circuito di queste persone dipendenti la produzione di dopamina che funziona come una sorta di compensazione e di gratificazione di questa dipendenza. La cosa interessante è che attivandosi, disattiva quella delle emozioni negative. In questo romanzo la cosa incredibile è che questa donna, come per le coppie che spesso arrivano nei nostri studi, c’è una totale dimenticanza, un totale oblio del momento di acuta violenza in cui il partner ha infierito, come una sorta di cancellazione dissociativa di tutta l’esperienza che è stata vissuta per cui il giorno dopo si ricomincia daccapo e succede esattamente la stessa cosa.
Ho due esperienze da portarvi su come affrontare queste coazioni e su come sia possibile interrompere questo meccanismo inesorabile e coattivo in coppie che poi generano figli. Incredibilmente avviene, come nel romanzo, che proprio il figlio o la figlia in qualche modo fanno da segnalazione a questa coppia che non è possibile andare avanti così, soprattutto nel caso in cui almeno uno dei due partner abbia delle aree di funzionamento normale, e in genere si tratta delle madri. Quando si accorgono che anche sul figlio può trasferirsi questo stesso meccanismo violento e coattivo è come se avvenisse una sorta di risveglio di questo altro da sé. Di questa piccola porzione per cui il figlio fa da promotore della cura dei genitori. Quante volte a me è capitato di cogliere come anche nella psicosi il dramma, la sofferenza della malattia sia un modo per richiamare a una verità del genitore e anche a una possibilità per il genitore di entrare e di rimettersi nela cura. In entrambi i casi a un certo punto la moglie chiede aiuto proprio perchè ha visto che nel figlio si può ripetere il suo stesso dramma.
In una situazione di queste la protagonista è una donna intelligentissima, con livelli di funzionamento veramente elevati sul piano sociale lavorativo e invece tutta questa intimità borderline con il marito che la picchiava e la aggrediva sessualmente. Si scoprì nel corso del trattamento che per lei era normale che il proprio figlio di 8 anni dormisse nella stessa stanza dei genitori, quella in cui periodicamente avvenivano scenate terribili, “perché tanto ... lui dormiva …” Come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Non parliamo di questa abitudine che hanno purtroppo le coppie attuali di tenersi i figli nel letto, per non alzarsi a soccorrerli nelle chiamate notturne. Questa donna intelligente, colta e sensibile è arrivata da me comunicando di aver capito a un tratto, di colpo, che così non poteva andare avanti. Mi racconta: "camminavo con mio figlio in una strada tranquilla e c’è stato un incontro casuale con un mio compagno di liceo. Abbiamo parlato, sempre camminando lentamente e siamo arrivati fino al Parco delle Basiliche, e il mio bambino mi ha detto: mamma, com’è bello parlare e camminare tranquillamente in questo prato”. L’espressione intensa di questo bambino, molto sofferente in questa coppia, rivela alla mamma come sia possibile stare tranquillamente a camminare e a parlare anche con un altro uomo. Questa immagine folgorante e la comunicazione autentica del figlio l’ha portata a chiedere aiuto. È iniziata tutta la storia, una storia positiva che ha comportato il problema della separazione della donna da questo uomo altrettanto geniale, fascinoso e terribilmente violento ma avvinghiato a lei anche con vissuti abbandonici.
È molto importante ipotizzare in questi casi, tutta una serie di interventi che proteggano questo nucleo germinante di richiesta salvifica d’aiuto per la mamma e per il bambino, in modo tale da poter non avere una ritorsione rispetto alla scelta della cura. Per esempio un’ipotesi che io suggerisco e che sto utilizzando in modo molto efficace è quella di accompagnare il trattamento della persona più consapevole della coppia borderline con un trattamento di coppia in cui si chiede al marito di partecipare e, alcune volte sulla pressione della sofferenza abbandonica, questo può avvenire. È opportuno poi che vi sia un supporto anche legale con avvocati che abbiano una sensibilità psicologica, cioè un’area gruppale che protegga questo progetto di nascita di una soggettività. È incredibile come questo bambino di otto anni, che prima era il bambino perfetto e bravissimo a scuola, da quando la mamma ha cominciato ad entrarare in cura ha manifestato una serie di sintomi psicosomatici, incubi, rossori, paure, lasciando finalmente venir alla luce, tutto quello che ha assimilato nel corso di quest’inferno familiare.
Vi racconto un altro esempio clinico. Quello di Mara, a differenza del caso precedente ha avuto invece un risvolto veramente drammatico, su cui vorrei allertarvi: quando uno dei due coniugi chiede aiuto e invece l’altro non è sufficientemente contenuto da un supporto psicologico e non lo accetta perché nega massicciamente i propri disturbi, in più di un’occasione mi è capitato di notare che il vero rischio, considerando che la separazione legale non tutela abbastanza il bambino, è che il coniuge si rifaccia sul figlio tendenzialmente con delle modalità di abuso. Questi tre casi mi hanno ovviamente allertato sul fatto che anche quando c’è una richiesta di separazione autentica da parte di uno dei due componenti della coppia è assolutamente importante supportare anche l’altro, quello più border, diciamo, dei due. Il rischio infatti è enorme. Oltretutto pensate che adesso la legge ha previsto la genitorialità congiunta, l’affido congiunto dei coniugi per cui il coniuge ha tutto il diritto di vedere il bambino, lo vede come possesso e più che altro ristabilisce lo stesso tipo di attaccamento; se non è consapevole e sostenuto psicologicamente non può fare altrimenti e trasferisce sul figlio il medesimo legame disorganizzato con tutto il carico che questo comporta; la violenza e in genere anche l’abuso sessuale.
Concludo questo mio intervento con un’osservazione di Gabbard in questo suo lavoro molto bello, “L’interfaccia mente cervello”, con un’immagine che arriva dalla neurobiologia ma è anche un’immagine vitale. Lui afferma che, tanto sono sedimentati i traumi nelle reti neuronali e nella compromissione delle aree cerebrali, tanto deve essere potente e ipotizzato in un modo veramente saldo il trattamento mirato a nuove modalità relazionali. Non è sufficiente un unico terapeuta come non lo è il trattamento di un solo elemento della coppia, perchè bisogna lavorare in parallelo a “sfuocare, desensibilizzare le reti traumatizzate e al contempo instaurare nuove reti” e questo instaurare nuove reti significa relazione individuale personalizzata, relazione con la coppia, nel gruppo e cure psicofarmacologiche. Significa immettere “reti sociali naturali” laddove mancano i supporti alla famiglia e tutto quello che può essere utile per dare vita a nuove modalità relazionali. Concludo con questa sua frase che esprime speranza: “la sfida al superamento dei vecchi modi che hanno per il paziente un richiamo alla dipendenza precedente (la ricompensa consolatoria della dopamina) è formidabile”. Noi dobbiamo immettere questa sfida nei nostri pazienti, però anche tutta la protezione possibile ed è assolutamente necessario proseguire la ricerca in questo campo.

Intervento del pubblico. Mi riferisco alla dipendenza anche da parte dei figli grandi, adulti, i famosi bamboccioni, come sono stati chiamati da un nostro politico, che spesso viene legata a un eccesso di genitorialità e invece mi sembra di poter leggere come un permanere nella ricerca di quella dipendenza sana e legittima che forse non è stata concessa in virtù di questo bisogno di un’autonomia precoce dei figli che secondo me apre un modo veramente nuovo sia a livello terapeutico, sia sociale, sia personale di affrontare questo problema.

Intervento del pubblico. Alla luce di quello che tu hai detto ripropongo due questioni che sono un po’ ripetitive però diventano sempre più di grande spessore. A proposito del tema della dipendenza all’interno dei Servizi c’è una difficoltà tra chi deve curare a comprendere questo tema della dipendenza, che poi è anche un argomento della cura. Per cui sulla questione del borderline che “manipola” siamo a livelli che non so come possiamo gestire perché da parte dei curanti c’è un atteggiamento totalmente liquidatorio, con tutto quello che ciò comporta. Si crea così un’impossibilità alla cura, cioè viene a mancarne il presupposto ed io non so come affrontare questo problema perchè non è legato solo alla formazione. L’altra questione è che quando tu dici che bisogna mobilitare un sistema di cura, per cui non c’è solo un intervento sul singolo mi sembra che anche questo sia un tema da affrontare perchè quando parliamo di Servizio pubblico mi chiedo come trasportare all’interno del Servizio stesso questa modo allargato di curare. E nello studio privato succede altrettanto, perchè per un singolo professionista mobilitare questo tipo di risorse non è solo un problema culturale ma significa anche la difficoltà di trovare in un sistema non strutturato, come invece è quello istituzionale, una serie di collaborazioni di questo tipo.

Vigorelli. Sarebbero interessanti interventi anche di altri servizi su questo tema, molto caro a Correale, dell’intolleranza degli operatori alla dipendenza. Si parla di formazione. Certo, però ci stiamo interrogando su quale tipo di formazione. Ci sono tanti livelli della formazione che possono essere utilizzati che spaziano dalla supervisione ai momenti specifici proprio su questi temi di competenza. C’è poi la possibilità di inserire connessioni con l’università con una contaminazione feconda del servizio su alcuni specifici argomenti. Insomma il tema della formazione è cruciale per aiutare gli operatori, soprattutto per quelli che tendono ad avere problemi in prima persona rispetto alla genitorialità. Molti operatori giovani in particolare, scelgono queste professioni di cura spesso quasi come una forma di esportazione di problemi propri sugli altri, in quella forma di accudimento che hanno magari proprio i bambini borderline come uno dei sistemi motivazionali dell’attaccamento. Accudiscono perchè non sono stati accuditi da un lato, però dall’altro espellono anche perchè non hanno quell’elemento di forza e di continuità che consente la stabilità, per cui magari accudiscono un po’ poi mollano, poi tornano ad accudire e così via senza comprendere se l’altro ne ha necessità, se lo richiede ed è disponibile a ricevere. Secondo me la strada è sempre quella della formazione pensata a più livelli con più possibilità . Chiederei a Correale di intervenire su questo perchè è uno dei punti che lui ha trattato nel suo libro “L’area traumatica e il campo istituzionale” ed è un capitolo davvero importante e decisivo.
Per quanto riguarda l’attivazione dei sistemi di cura nelle situazioni anche private io devo proprio al lavoro nei servizi pubblici questa assimilazione interna di una gruppalità anche di competenze, per cui mi sono data da fare un po’ , per esempio per organizzare il contatto con dei professionisti in campo legale, di specialisti per le forme psicosomatiche, con centri di terapia familiare. Le connessioni certo sono costose dal punto di vista dell’impegno, però di fatto consentono di aver nella mente, di fronti a situazioni complesse, un menù di eventualità e di possibilità per cui, come è ormai assodato che si può inviare il paziente allo psicofarmacologo psichiatra, questo vale anche per il consulente legale intelligente o il giudice particolarmente sensibilizzato, o ancora al consulente di coppia o di famiglia che può collaborare su questi temi con noi. Si tratta però anche di avviare dei percorsi interni, personalizzati su questi aspetti.
Imparando come sempre dagli errori e dall’esperienza: per esempio mi viene in mente il caso di M veramente drammatico; avevo intuito la necessità di un intervento a domicilio per osservare il rapporto, in sua assenza, tra la sua bambina e il padre da cui si era burrascosamente separata. Le ho proposto una giovane educatrice, per vedere cosa succedeva in quella relazione nei confronti della quale Mara. sembrava mostrare una sorta di inquietante diniego. C’era una cecità, una scotomizzazione, partendo da una passiva sottomissione alla legge che aveva decretato che il padre doveva avere la figlia in determinati momenti della settimana; però oltre alla comunicazione di alcuni incubi, l’intuizione di alcuni sintomi che la mamma mi portava della bambina, sintomi classici d’abuso, mi avevano fatto pensare che c’era un’area di incapacità di vedere della madre, e che per aiutare lei e la figlia, in qualche modo lì ci doveva essere qualcuno che potesse testimoniare di “qualche cosa” che la mamma non riusciva a vedere. È stato attraverso il lavoro di questa giovane educatrice che si è aiutata la bambina pian pianino a rendersi consapevole di quello che stava succedendo e poi si è lavorato anche per un’indicazione al padre in modo da evitare i disastri delle denunce. Anche attraverso un mio “non vedere” è nata un’ipotesi di aiuto. Oggi c’è un potenziale lavoro straordinario per i giovani psicologi ed è quello di poter aiutare e sostenere la genitorialità delle mamme, così affaticate e sotto pressione o fragili nella loro funzione. Si possono formare persone giovani e sensibilizzate psicologicamente ad essere presenti in queste case dove non c’è tempo per stare per i bambini, perché intanto ascoltino, osservano, vedano, giochino e facciano da tramite a queste mamme che non hanno tempo per vedere, ascoltare eccetera. Le mamme infatti comunque devono andare a lavorare, se no non si sbarca il lunario. Sono delle formule nuove che bisogna inventare per rendere questa genitorialità possibile, laddove fallisce la struttura tradizionale “sufficientemente sana” della famiglia.

Correale. Sono d’accordo con l’invito della professoressa Vigorelli: anche a me sembra un tema molto importante questo dell’accettazione della dipendenza. Credo che forse si potrebbe anche espanderlo e dalla difficoltà dei servizi accettare la dipendenza dei pazienti gravi. Si potrebbe, a partire dagli operatori dei servizi chiedersi quanto la nostra società nell’insieme accetta la dipendenza oppure è schiava di una fanatsia di autonomia e di autigenerazione. A me sembra molto interessante questo: se non si incarna la nostra competenza nel fatto che quando parliamo con i nostri pazienti, attraverso il modello, aderenti nella cornice del modello, dobbiamo anche un po’ parlare di qualcosa di cui noi sappiamo di cosa si stia parlando. Io penso che questo ci permetta l’accettazione della dipendenza, cioè il mettere in gioco noi stessi non in un modo sregolato ma in un modo che faccia sì che noi sappiamo di cosa il paziente ci sta parlando e quindi possiamo metterlo in sintonia. A me sembra che il concetto di accudimento non sia un concetto utile perchè l’accudimento presuppone l’idea del bisogno della sua soddisfazione che è una cosa importante, però qui credo che più ancora del bisogno ci sia un problema relativo alla condivisione del dolore. Io mi sintonizzo col tuo dolore e trasformo l’angoscia e l’insoddisfazione in un dolore consapevole. Per far questo io operatore devo aver fatto questa operazione col mio dolore, cioè devo essere stato anch’io più o meno laddove ti trovi tu ma essere poi ritornato e allora ti posso parlare. Infatti non so chi diceva che gli operatori dovrebbero essere convalescenti delle stesse malattie che vogliono curare. È chiaro che non possiamo diventare tutti psicotici o tutti borderline, ci mancherebbe altro, però in qualche modo aver sentito che noi siamo tornati da un luogo dove però siamo stati più o meno mi sembra molto importante. È l’aspetto della condivisione del dolore che però in qualche modo è stato superato, perchè altrimenti si parla sempre del dolore di un altro ed è difficile accettare la dipendenza se non si mette in moto una nostra esperienza di dolore e di lutto (un tema di cui tratta molto Marta Vigorelli è il lutto congelato). Oserei dire che l’altro aspetto è quello dell’immaginazione: credo che bisognerebbe inserire nella dipendenza dell’altro un elemento immaginativo nostro per parlare in un modo che faccia sentire al paziente che noi abbiamo una fantasia, che non siamo soltanto persone che applicano tecniche, ma che le applichiamo mettendoci un guizzo d’immaginazione personale, un’immagine, una citazione, un film, insomma una cosa che rompe lo schema atteso e introduce qualcosa che il nostro paziente dice: “mah, questa cosa mi colpisce”. Oppure una cosa che dice il paziente e alla quale rispondiamo: “questa cosa che lei dice mi colpisce!”. Allora: dolore e immaginazione come elementi personali regolati assolutamente e messi in gioco possono favorire l’accettazione delle dipendenze, se invece noi siamo i primi ad avere timore dell’immaginazione perchè la consideriamo disordinata, o timore del dolore perchè lo consideriamo troppo allagante, in questo senso allargherei il concetto di accudimento per uscire da questa eterna metafora della mamma e del bambino che trovo un pochino eccessiva e troppo dilagante: ci sono anche adulti che parlano con adulti e non soltanto mamme che parlano con bambini al mondo. In questo senso il dolore e l’immaginazione mi sembra possano introdurre una possibilità di accettare questa dipendenza e poi forse sono anche gli elementi che mancano un po’ nella nostra società, cioè l’accettazione del fatto che la dimensione tragica della vita non è necessariamente un disastro. Certe volte la dimensione tragica è quella che permette un’apertura all’altro, che permette uno sviluppo di idee, di fantasie. Per noi il terrore è tale che tutte le tragedie devono sempre trasformarsi in commedie: mi sembra che questo andrebbe discusso approfonditamente. Lo stesso vale per l’immaginazione: mi pare che nella ricerca di semplificazioni sempre riduttive l’immaginazione viene temuta come un elemento disturbato oppure come un lusso che ogni tanto può essere divertente ma poi va lasciato là. Mi sembra che invece bisognerebbe entare molto più fortemente nel tessuto dei rapporti.

Vigorelli. Condivido pienamente, anzi io direi che la dimensione dell’accudimento del bisogno che purtroppo è quella prevalente nei programmi dei Servizi può essere proprio un modo difensivo usato per non riuscire ad accogliere l’aspetto del dolore. È quello che in genere si fa di più: la casa, il lavoro, la cura di sé, la pratiche riabilitative che poi diventano estremamente meccaniche. Questa capacità di accogliere il dolore presuppone da parte degli operatori un percorso, non necessariamente un trattamento su di sé, ma un creare una sensibilizzazione a questi aspetti, compresa la creatività, anch’essa mortificata molto dalle linee guida. Può essere una difesa addirittura come elemento che distanzia.


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