Antonello Correale.
Vorrei subito dire che non mi sento assolutamente in grado di
dare un giudizio sulla nostra società e sui suoi mali,
perchè, al di là delle impressioni, sono discorsi
troppo ampi per poterli trattare, per lo meno da parte mia. Quello
che posso fare, e che mi sento di fare con voi, è di aprire
un dibattito: è possibile dai nostri casi clinici evidenziare
alcuni nuclei problematici, alcune tematiche chiave che siano
per così dire aperte da due parti, cioè ci aiutino
a spiegare la clinica, col singolo paziente, ma anche ad indagare
alcune tematiche più collettive, partendo dall’individualità
per arrivare anche alla dimensione collettiva?
Questa mattina vorrei proporre due o tre di questi concetti chiave
e vedere se ci aiutano ad affrontare il problema del borderline
come malattia sociale, o del disagio sociale che favorisce certe
malattie o per lo meno ne facilita la manifestazione.
Un’altra premessa riguarda una filosofa americana, Nusbaum, che
ha scritto un libro molto bello: “L’intelligenza delle emozioni”.
Lei sostiene una tesi che a me sembra molto interessante: uno
dei compiti della filosofia è di estrarre dalle teorie
alcuni concetti generatori, concetti chiave, idee guida vive,
che non siano però idee chiuse ma idee aperte, che possano
dilatare il discorso, allargarsi nella mente e produrre altre
idee di conseguenza. Sono concetti nucleari che caratterizzano
il pensiero dei grandi filosofi in generale, senza ridurre tutto
a formulette, ma implichino anche alcune concezioni cliniche.
Su questo compito di rigore metodologico che offrirebbe la filosofia
e di questi concetti ponte io ve ne vorrei proporre sostanzialmente
tre. Forse potremmo dire che si potrebbe riassumere tutta la teoria,
il trauma originario, la perdita di filtri, la risposta al sentirsi
vittima di un’ingiustizia che promuove a sua volta dei comportamenti
ingiusti, violenti, terroristici e provocatori, la sensazione
che la vita vada male così come è e che bisogna
cambiarla, ma che l’unico modo per cambiarla sia la rabbia, la
polemica, la rottura, l’impulsività; l’impossibilità
di attendere, di procrastinare, la non virtù della pazienza...Io
vi vorrei proporre che ci sia un concetto chiave, che potrebbe
essere quello di nudità che è sia il manifestare
una propria modalità interiore, intima, senza veli e quindi
sbatterla in faccia all’altro. Questo comporta la seduzione, l’eccitamento,
l’avvicinamento indebito, una certa precipitosità, ma anche
il fascino: la nudità è, in una certa misura eccitante
e affascinante, ma anche spaventosa o terribile in un’altra misura.
È proprio in questa valenza dell’essere esposti direttamente
che sta il suo fascino e il suo terrore, l’attrazione che suscita
e il timore che suscita.
Mi pare però che nella nudità ci sia anche un altro
concetto: l’idea di essere esposto a tutti gli stimoli senza filtri.
Tutto arriva direttamente sulla pelle, non c’è un’armatura,
un guscio, una protezione, un intermediario, un’intercapedine.
Questo d’altra parte è confermato anche da molti studi
di tipo neurofisiologico. Tutti questi disturbi sono caratterizzati
dal fatto che queste persone non sembrano in grado di modulare
la ricezione degli stimoli. Tutti gli stimoli sono eccessivi,
sono troppo potenti, sono come amplificati. Se uno volesse fare
un discorso neurofisiologico si potrebbe dire che i potenziali
corticali sono sempre il doppio di quelli cosiddetti normali.
Sono troppo alti: tutto rimbomba, un suono rimbomba, una voce
rimbomba, una vista è troppo potente, un dolore è
lancinante, un eccitamento è travolgente. Questo effetto
di nudità come qualcosa che viene ferito esageratamente
è qualcosa che però si capovolge nell’offrire anche
all’altro questa nudità come un attacco, come una seduzione,
come una testimonianza di questo modo di essere. Potrebbe essere
un concetto che ci aiuta a riassumere una valenza esistenziale
del modo di vivere del borderline. Per il borderline tutto è
troppo puntuto, violento, aggressivo, tutto è duro. Si
potrebbe dire, volendo usare un linguaggio poetico, che la vita
è rocciosa e gli esseri umani sono fatti di pietra, sono
duri, non c’è la tenerezza di cui si parlava l’altra volta.
C’è il sesso, che può essere molto eccitante ma
anche molto duro se non è corredato con l’altra parte che
lo rende umano che è il difficile connubio fra tenerezza
e sessualità. È un tema che il borderline risolve
quasi sempre annullando uno dei due termini e buttandosi sull’altro.
Anche la tossicodipendenza, la ricerca immediata di un piacere,
di una soluzione, di una pacificazione possono rientrare in questa
intolleranza al sentirsi nudi. Il guaio è che questa nudità
viene capovolta nel suo opposto, cioè questa fragilità,
questa esposizione diventa un modo con cui io capovolgo il rapporto
e rendo nudo te. Chi credi di essere tu dottore che vieni a dirmi
le cose della vita, io non credo alle cose che mi dici tu: fammi
prima vedere come sei e poi dopo si potrà discutere se
con te si può parlare oppure no. Naturalmente questo comporta
anche un’aggressività, una violenza, addirittura certe
volte uno scivolamento verso il disturbo antisociale, verso modalità
delinquenziali, oppure una modalità tossicodipendente un
po’ autistica che però è compensatoria, la sessualità
promiscua, l’irritabilità, la litigiosità, la permalosità
eccessiva, l’instabilità dei rapporti, insomma tutte le
cose che conosciamo. Quindi: traumatismo, nudità, capovolgimento
della nudità nel suo opposto; costituzioni particolarmente
propense ad una reattività eccessiva, che in presenza di
traumi originari sviluppano questa modalità di nudità
aggressiva.
Questo secondo me suscita in noi, quando parliamo con loro, al
tempo stesso quel senso di trepidazione, di protezione, di commozione
anche nel vedere una vita così esposta e al tempo stesso
questa fatica spaventosa di trattare con loro, questo desiderio
che ci lascino in pace, che non ci stimolino continuamente, che
non ci richiamino sempre a questa condizione esistenziale così
fragile. Non possiamo essere sempre sollecitati da delle forze
così potenti.
Questo concetto - la nudità - ci può aiutare, come
concetto ponte come dicevo all’inizio, tra clinica e società?
Può darsi che in qualche modo viviamo in una situazione
in cui certe persone possono sentire con più facilità
questa esposizione, questa mancanza di filtri, di meccanismi assimilativi
della cultura, della modalità sociale e relazionale, della
storia del passato e che quindi coprano questa nudità con
modalità compensatorie molto poco funzionanti sul piano
individuale, però funzionanti su quello sociale, prestandosi
a imitazione, a comportamenti conformistici, per esempio, una
ipertrofia del discorso del benessere, della felicità,
del piacere, della facilitazione, una mancanza del meccanismo
della procrastinazione, la perdita di un senso del tempo come
prospettiva. Potremmo fare uno sforzo per collegare una certa
modalità che in senso lato, sia chiaro, io chiamerei tossicomanica
della nostra società, procuriamoci tutto il prima possibile,
non pensiamo troppo al futuro, pensiamo all’adesso; quest’atteggiamento
tossicomanico del siamo felici, siamo belli, siamo giovani, siamo
allegri, stiamo bene, basta, stiamo bene! Questo stare bene potrebbe
essere una copertura del fatto che sotto ci si sente molto feribili
da qualunque cosa possa capitare perchè non ci sono dei
filtri assimilativi legati alla dimensione culturale, scientifica,
umana, antropologica o in senso lato religioso o spirituale, intendendo
per spirituale la capacità di simbolizzare ampiamente l’esperienza,
cioè di rimandarla ad un’ulteriorità, ad una dimensione
associativa più ampia, ad un contesto di idee preesistenti.
Questo è un primo spunto che vi volevo offrire. La nudità
che diventa tossicomania. Come vedete non sto dicendo che la nostra
società è una società in cui i giovani sentendosi
nudi diventano tossicomanici, ma che forse questo concetto ci
può aiutare a entrare nel problema.
Secondo punto: su questo ha parlato a lungo la volta scorsa la
professoressa Vigorelli, ma mi pare un tema centrale.Ve lo volevo
proporre ancora come un concetto chiave ampio, poi forse si può
cercare di declinarlo più sulla clinica. Il concetto è
quello di sradicamento, che credo che sia di Simon Weil, che forse
molti di voi conoscono, una scrittrice e filosofa francese morta
da giovane di tubercolosi subito dopo la seconda guerra mondiale,
ebrea di origine poi diventata cristiana che si è occupata
molto di problemi di politica, di cultura e di religione. Lei
ha usato forse per prima, io l’ho incontrato in un suo libro che
si chiama “La prima radice” l’enracinement (sul dizionario francese
ho trovato deracinement), il radicamento e il suo contrario, lo
sradicamento. Lei dice qualcosa di molto forte, molto interessante:
lo sradicato diventa sradicante. Per noi il traumatizzato diventa
traumatizzante, il borderline è una vittima che diventa
persecutore. Che vuol dire lo sradicato diventa sradicante? Vuol
dire che quando ci sono delle modalità che tendono a privare
le persone della convinzione, sensazione, esperienza di far parte
di un flusso di generazioni in cui un certo passato, sia pure
rinnovantesi volta per volta, viene però trasmesso di generazione
in generazione, se questa cosa si spezza, per esempio in un’immigrazione
selvaggia, in uno spostamento eccessivo di popoli da una parte
all’altra, in una ipervalorizzazione della cultura del presente
che non tende più a valorizzare la cultura del passato
(per cui servono soltanto le cose che servono per lavorare, per
guadagnare, per fare strada e la spiritualità del passato
è considerata inutile o lusso di pochi specialisti), tutto
questo comporta uno sradicamento.
La persona vive faticosamente, dolorosamente, penosamente o, meglio
ancora, angosciosamente, cioè in modo confuso e non consapevole,
la sensazione di non avere una collocazione in un flusso di generazioni
che si conseguono. Si vive in un tempo zero, si parte da qua,
prima non c’è più niente. Quest’idea di stare in
un tempo zero, in cui si parte da qua e prima non c’è più
niente è tipica secondo lei dei popoli che tendono a lasciare
la loro patria e andare in altre patrie, oppure di popoli che
tendono a essere colonizzati da altri popoli e che vivono quindi
l’angoscia che la cultura del popolo colonizzatore faccia fuori
la cultura che c’è stata fino ad adesso nel popolo colonizzato.
Sono fenomeni stranoti, mi rendo conto che non sto dicendo nulla
di nuovo, però sicuramente tanti problemi anche della cultura
contemporanea si possono vedere come angosce di sradicamento molto
forti che certe culture vivono e a cui si risponde molto spesso
con atteggiamenti violenti o autoritari piuttosto che cogliere
fino in fondo la drammatica natura di perdita che possono avere
certe situazioni.
Ma che vuol dire questo sradicamento in termini più clinici?
Ho portato l’esempio dell’immigrazione ma anche nelle nostre società,
dove pure l’immigrazione è un fenomeno gigantesco, esistono
fenomeni di spaesamento e di perdita della sensazione che esista
un passato che ci viene trasmesso. I mass media tendono a sottolineare
quasi esclusivamente una dimensione del presente: è rarissimo
che si parli di cose del passato. Perchè i genitori avrebbero
paura dei figli e i figli dei genitori, cioè cosa si è
rotto in questo passaggio da una generazione all’altra? Perchè
si ha la sensazione che ci sia stata una cesura? Questo mi sembra
un punto molto importante che dovremmo approfondire: il concetto
di sradicamento è molto utile per i borderline ma forse
è utile rispetto anche al contesto collettivo. Il borderline
lo dice sempre: io non so bene cosa voglia dire la parola casa.
Casa nel senso di muro con un tetto sì, però casa
nel senso che torno a casa e lì ci sono mio padre e mia
madre, i miei fratelli e le mie sorelle, e io sono a casa mia,
cioè c’è quella familiarità, quell’accoglimento,
quella possibilità di riposo, di lasciarsi andare in un
contesto che ti dice che adesso puoi staccare, puoi stare tranquillo.
La casa del borderline è una casa dove si attacca, non
si stacca, dove si entra e si comincia la battaglia. Casomai si
sta meglio fuori ma dentro casa non c’è pace, c’è
sempre allarme, tensione, timore, persecutorietà, permalosità,
attacco, sospetto, critica. È difficile che ci sia una
situazione in cui uno dice: vai tranquillo, adesso stiamo tranquilli.
Chiamiamola tenerezza, pace o assimilazione.
Questo ordine, questa tranquillità è anche quella
che permette che certe cose possano passare da una generazione
all’altra. Non sono solo i ricordi di genitori e nonni, in questo
tema di intergenerazionalità che mi pare stia assumendo
un’importanza sempre maggiore nei nostri studi, ma anche l’idea
che esista una cultura passata, l’arte del passato, la filosofia
del passato, il mondo com’era, le culture che non ci sono più,
anche il grande tema delle culture dei vinti e dei popoli scomparsi.
Noi stiamo soltanto in compagnia della cultura dei vincitori,
le culture dei vinti non ci interessano più, sono scomparse
e basta. Degli indiani d’America, degli Incas ci sono due o tre
musei però non è che siano cose molto significative.
Quest’idea che la generazione passata possa trasmettere alla generazione
che viene qualcosa, poi vedremo che cosa trasmettere, è
un’idea che nel disturbo borderline non è più presente,
perchè mancano quei veicoli, tenerezza, amorevolezza, pace,
ordine e significativa trasmissione di tranquilla pacificità.
L’eterna guerra traumatizzante di queste famiglie impedisce un
passaggio. Il borderline se è colto, se è lettore,
artista, appassionato naturalista, di sport o di quello che volete
voi se lo inventa da sé o con gli amici, ma è difficile
che lo possa prendere da una tradizione perchè dai genitori
gli viene soltanto un allarme.
La conseguenza di questo fenomeno è paradossale: il borderline
anzichè accettare la sfida di dire: ecco, a casa si sta
malissimo, me ne vado in giro per il mondo, più spesso
accentuano l’attaccamento nei confronti delle figure familiari.
Questo è paradossale: se uno seguisse una logica puramente
razionale penserebbe: come mai uno che ci sta così male
deve rimanere attaccato a queste persone? Invece succede il contrario:
quanto più si sta male tanto più ci si attacca alla
persona con cui si sta male. Forse perchè c’è un
bisogno di compensare una paura terribile di questa tradizione
che non passa, di questo calore che non viene dato. L’attaccamento
si concretizza, cioè diventa sempre più fisico,
sempre più concreto, sempre più reale, personale
e immediato, sempre meno spirituale in senso lato, non in senso
religioso, ma in senso ampio, mentale, affettivo e simbolico.
Allora si assiste a questo paradosso di persone sradicate come
stato d’animo che si iperattaccano, ma non è un radicarsi,
è un attaccarsi. Si appiccicano spaventosamente all’altro,
se non ai genitori ai compagni, agli amanti, agli amori. Ci sono
questi amori tempestosi, ma di fatto la figura chiave è
sempre un genitore, un padre o una madre, in certi casi un marito,
una moglie, un compagno di vita a cui ci si attacca con modalità
insoddisfacenti: il famoso nè con te nè senza di
te. Io sto estremizzando naturalmente, però penso che,
in linea di massima, voi siate tutti familiari con questa modalità
di uno sradicamento spirituale e affettivo che diventa un iperattaccamento
concreto passionale. Questa è una modalità tipica
del disturbo borderline e in genere dei disturbi di personalità
di tipo impulsivo.
Se volete lo possiamo dire in un modo più romantico, poi
spiegherò perchè mi sembra importante usare un linguaggio
non troppo tecnico. Si potrebbe dire che il borderline tende a
sviluppare delle passioni di tipo mortale, estenuante, violento.
Passioni cioè che hanno lo scopo, la finalità di
annullare momentaneamente questa tensione, come se fossero delle
droghe che in realtà tendono a esercitare un dominio sull’altro,
proprio perchè l’altro viene più usato che avvicinato.
Mi servi per placarmi almeno stasera la mia tensione, facciamo
l’amore, ci droghiamo, giriamo tutta la notte. È una modalità
passionale di una passione che non corrisponde a un’intimità
condivisa, ma a una specie di attaccamento violento e drastico.
Entrando in un discorso clinico si potrebbe chiedersi se queste
passioni mortali sono legami isterici o legami perversi. Bisognerebbe
fare tutto un lavoro di discriminazione clinica, io adesso sto
parlando forse a un livello un po’ troppo generale. Ci tenevo
a indicarvi come lo sradicamento non porti ad un’anaffettività,
ma al contrario ad un’affettività passionale, ma in cui
questa passionalità non ha uno sviluppo possibile, diventa
come una specie di passionalità consumatoria.
Se volete si può parlare anche di amore e morte nel senso
antico della parola: io cerco attraverso l’amore una morte pacificante,
momentanea, un annullamento pacificante che mi porti fuori da
me stesso e mi faccia dimenticare quest’ansia di base. Io credo
che quando nei servizi si curano questi pazienti si abbia questa
sensazione che quello che consuma anche noi operatori è
l’essere oggetto di questo tipo di passioni, cioè di passioni
che sembrano mirare più a un esaurimento della passione
stessa, nel senso di consumarsi tutt’e due nell’incontro più
che nella strada che si fa insieme. Come si può trasformare
quest’idea dello sradicamento, con questo suo corollario passionale
in un discorso più evolutivo, che non sia soltanto descrittivo?
C’è un concetto molto importante in psicoanalisi che in
realtà non è soltanto in psicoanalisi. Come spesso
succede la psicoanalisi esprime in modi più precisi concetti
filosofici molto più antichi. Vi vorrei proporre uno spunto
che deriva prevalentemente dalla Psicologia del Sé, che
come sapete è uno sviluppo molto importante della psicoanalisi
contemporanea ed è uno dei modelli più diffusi.
Tra l’altro il modello della Psicologia del sé di matrice
kohutiana è forse quello, non so se la professoressa Vigorelli
è d’accordo, che ha più dialogato col cognitivismo,
che si è posto di più il problema di una dialettica
con le matrici cognitiviste, a loro volta più aperte alla
psicoanalisi come quelle bowlbiane. Non so se si può dire
che tra Bowlby e Kohut in qualche modo esista un qualche tipo
di dialogo a distanza, comunque, sempre sulla falsariga dei concetti
chiave, molto importante della Psicologia del sé potrebbe
essere quello di struttura nucleare del sé, nucleo centrale
del sé, struttura autoorganizzativa, processo costruttivo
della formazione del sé.
Che cos’è questo nucleo centrale del sé? È
intuitivo, è un nucleo originario della persona che tende
all’autorealizzazione, da cui si diramano gli affetti e gli investimenti
amorosi e affettivi. Se questi investimenti amorosi e affettivi
non vanno bene si strutturano i meccanismi di difesa. Insomma
il carattere si forma sul tentativo che ogni persona avrebbe di
una specie di autoaffermazione e autorealizzazione che incontra
più o meno ostacoli nevrotici, psicotici, caratteriali.
A me sembra che questo concetto sia al tempo stesso troppo ampio
e troppo limitato, ma comunque sia utile discuterlo almeno.
Di che cosa si sta parlando esattamente quando si sta parlando
di nucleo centrale del sé? È molto ottimistico pensare
che ognuno di noi abbia questa cosa dentro che va avanti nel mondo
e che si individua: in realtà non è sempre così.
Spesso si ha la sensazione che le persone se lo siano un po’ perso
questo nucleo centrale, però è un concetto utile.
Io ve lo vorrei proporre così: che il nucleo centrale del
sé è anzitutto un essere fortemente radicati nella
propria corporeità e nelle proprie emozioni. C’è
qualcosa che nasce proprio da noi e che è l’emozione vissuta
attraverso lo stare dentro il nostro corpo.
Qui ci viene in soccorso forse più che la psicoanalisi
la fenomenologia e tutto il tema dell’esistenzialismo. Edith Stein
in particolare si è occupata molto di questo tema del corpo
proprio. Che cosa vuol dire corpo proprio? È il corpo in
senso proprio e il corpo di propria proprietà. Proprietà
nel senso che è il mio corpo e proprio nel senso che è
proprio il corpo di cui si sta parlando. Però corpo non
significa soltanto sistema biologico, neurovegetativo, viscerale,
muscolare e osseo, che pure è una parte così importante
della nostra vita. Corpo è il nostro compagno di strada
da cui non ci libereremo mai. Non possiamo uscire dal nostro corpo,
è il nostro tramite col mondo. La fenomenologia ha molto
studiato questo amore-odio che possiamo avere per il nostro corpo,
questo senso di essere imprigionati, antichissimo tema platonico
“il corpo come prigione”. Al tempo stesso il corpo ci porta il
piacere, l’energia, il desiderio, la passione, la percezione del
mondo e di tutte le sue bellezze.
Ci vengono in aiuto non solo filosofi come la Nusbaum ma anche
la psicologia dello sviluppo, con Stern e i nostri grandi studiosi
della psicologia del bambino a comprendere come il corpo sia le
emozioni. Le emozioni in fondo sono stati mentali vissuti attraverso
il corpo: penso che, pur in una visione abbastanza semplificata
dire così. La rabbia, il dolore, la vergogna, il disgusto
da un lato, la passione, il desiderio, l’eccitamento, la speranza
dall’altro devono esprimersi con una sensazione che si ha: di
essere più leggeri, più dilatati, più pesanti,
più vincolati... chi si innamora si sente le ali ai piedi,
chi è bocciato a un esame si sente come se portasse un
masso sulla schiena e così via. Le emozioni sono queste,
poi ci sono i pensieri. Ma il pensiero per incarnarsi, per essere
vivo ha bisogno di poggiarsi, di intrecciarsi con l’emozione e
quest’ultima passa attraverso il corpo.
Allora, si può dire che ognuno di noi ha un suo corpo emozionale
e che queste emozioni però non si limitano a reagire al
mondo, contengono in sé una specie di spinta verso l’esterno.
Questo è un altro grande patrimonio filosofico che Freud
raccoglie. In fondo è il grande tema dell’eros di Platone
che dice che gli esseri umani hanno una spinta. L’eros è
una spinta verso l’oggetto, verso gli altri, a collegare, a unirsi,
a connettere, a incontrarsi. Questa spinta è qualcosa per
cui il nostro corpo e la nostra mente, che si intrecciano, tendono
verso l’esterno. Sant’Agostino parlava di appetitus, Freud parlava
di libido. Mi sembra che anche questi attacchi che vengono fatti
alla teoria freudiana della libido, che sono giustificati se si
adotta la libido come unico concetto, siano ingiustificati. Saltare
a piè pari il concetto di libido mi sembra molto pericoloso
perchè la libido contiene in sé proprio questa intuizione
di una spinta verso qualcosa che non è soltanto il desiderio
di essere riconosciuti, è anche il desiderio di qualcosa
che sta sempre al di fuori di noi. È come se Freud avesse
individuato che l’essere umano è di base inquieto ed è
un bene che sia così. Poi c’è l’inquietudine patologica,
eccessiva, ansiosa, quella borderline, quella psicotica, da assenza,
da lutto. Una certa inquietudine da ricerca di qualcosa che sta
fuori da noi è connessa con la natura stessa dell’impulso
autoorganizzativo che c’è in noi. Se si perde quest’inquietudine,
secondo me, si perde buona parte della vitalità. I fenomenologi
parlano di soggettività trascendentale, cioè della
tendenza a trascendere. Il discorso si può allargare molto.
Questo dell’inquietudine è un tema che mi interessa molto.
Si può dire che lo sradicamento, dal momento che non c’è
una possibilità di costituire un accoglimento culturale,
storico, del bambino che nasce, consista nel fatto che non si
offre una culla carica di memoria, di storia, di pensiero, di
emozioni? Che in qualche modo questo bambino viva una sensazione
di partire da zero, di non avere un alveo in cui nasce e in cui
si sviluppa e che quindi questo impulso autorealizzativo, questo
nucleo centrale del sé venga sottoposto a una sorta di
coartazione fin dall’inizio. Non viene facilitata un’autenticità
autorealizzativa, viene facilitata o una lotta continua o un conformismo
aspecifico. Non si ascolta questo bisogno che ognuno di noi si
metta in contatto con una sua componente potenziale, germinativa,
originaria, in cui ognuno di noi va verso il mondo e dice: vediamo
un po’ questo mondo che effetto mi fa? No, te lo dico io che effetto
ti deve fare il mondo. Il figlio dev’essere un ricettacolo di
un’angoscia genitoriale, che a sua volta è ricettacolo
di un’angoscia genitoriale precedente.
Per concludere sul tema dello sradicamento, direi che comporta
una lacerazione delle generazioni, che non è soltanto il
fatto che non si riesce più a trasmettere il passato, ma
non si riesce più, perché c’è una oppressione
nella generazione precedente a trasmettere questo senso di un
amore potenziale per le cose, di un andare verso le cose per recuperarne
una freschezza, un’originalità, una scoperta, un valore.
Credo che questo sia un aspetto molto utile da discutere: sta
succedendo questo nella società? A me sembra di sì,
però bisogna discuterne. Nelle famiglie dei borderline
sicuramente succede, ma succede anche più ampiamente nella
nostra società? Io tenderei a pensare che un po’ succede.
Il concetto è utile perchè ci permette di interrogarci
alla luce di questa possibilità.
Mi pare che noi siamo in un mondo, in cui se si dovesse catalogare
la patologia dei mass media, penso che tutti sarebbero d’accordo
che si tratti di una patologia isterica. Hanno lo stesso meccanismo
degli isterici, cioè teatralizzano tutto, isolano un singolo
pezzetto senza studiare il contesto, iperemozionalizzano il particolare
che diventa urlato. Si inquadra la mamma disperata, la lacrima
della persona che ha perso un figlio come se la verità
di quell’evento fosse soltanto il fatto straovvio che una madre
che ha perso un figlio piange. Non è quello il punto fondamentale.
Il dramma sta nel fatto che questa isterizzazione non permette
una proliferazione della vita, della spirito, cioè un porsi
un problema un po’ più ampio, una domanda su che cosa muove
quella persona a fare quella o l’altra cosa. Non ci si interroga
più sui moventi, ci si interroga solo sui fatti.
Quest’isterizzazione di massa non comporta di fatto un comportamentismo
diffuso, una modalità comportamentistica di valutare l’essere
umano? Non c’è il rischio che si perda la capacità
di interpretare gli eventi, in nome di una pura e semplice fattualizzazione
delle cose? Io non sono un esperto di mass media, ma mi pare che
questo tema ci sia e che potrebbe aiutarci a spiegare perchè
una diffusione massiccia di certi temi, il benessere, la ricchezza,
la gioventù, la felicità, fatta con questa modalità,
possa confondere la generazione passata e non permettere di trasmettere
alla generazione che viene un altro modo di vedere le cose.
Di fronte a questo quadro, alcune figure tendono a invitare ad
un ritorno ai valori. Ma come proporre questi valori? Come pure
leggi? O li proponiamo come una capacità di ritornare alla
matrice, per cui l’etica è di fatto prima una scelta, che
un obbedire a una logica o a una regola. Siamo in grado di proporre
questi valori come qualcosa che nasce da un orientare il soggetto
verso l’altro, o è soltanto un fai così perchè
altrimenti sbagli? Mi pare che anche questo sia un tema che potrebbe
andare bene con il radicamento e lo sradicamento.
Per ricapitolare: lo sradicamento può essere legato al
fatto che esistono nella nostra società condizioni di frettolosità,
impazienza, pressione che impediscono di valorizzare da parte
dei genitori nei loro figli la possibilità di sviluppare
questo nucleo centrale, questa potenzialità germinativa,
questa spinta verso l’altro. Al contrario vengono proposti modelli
aspecifici, già dati e conformistici o nessun modello,
come quando il figlio desidera spasmodicamente essere consigliato
però riceve questo. Spesso e volentieri insomma si ha questa
confusione, che comporta questa rottura di una capacità
trasmissiva. Io penso che anche questo possa essere un modo utile
di pensare alle cose.
Dobbiamo però essere modesti e non arrivare subito a una
diagnosi. Possiamo considerare se questo concetto di sradicamento
con queste modalità ci aiuta a interpretare un po’ meglio
quello che succede tra generazione dei genitori e generazione
dei figli.
Volevo dire un’altra cosa importante: a me pare che un tema importante
sia quello del linguaggio. Non pensate che noi dovremmo usare
molto di più il linguaggio comune rispetto a quello specialistico?
Questa è un’idea che mi ha dato Boccanegra. Egli cita Wittgenstein,
che dice che il linguaggio comune possiede potenzialità
sconosciute che noi non valorizziamo del tutto. Questo mi sembra
importante. È necessario che noi usiamo il nostro linguaggio:
impulsività, disregolazione degli impulsi... È necessario
che usiamo un linguaggio preciso fra di noi perchè è
il linguaggio della scienza che non è da mettere in discussione
perchè manda avanti le scoperte. Quando invece si parla
a un altro livello, come quello con i pazienti o a livelli formativi,
parlare di passioni, di amore e morte ridiventa importante. Dobbiamo
dare un po’ di carne e sangue ai discorsi che facciamo, non possiamo
limitarci a un linguaggio troppo asettico, ben sapendo che il
linguaggio letterario e poetico è qualcosa che avvolge
il linguaggio strutturale, non lo può sostituire.
Questo riguarda anche chi lavora nei servizi, dove si parla sempre
dei modelli. Si chiede di che scuola sia il collega psichiatra,
o di che tipo di psicologo si tratti, se sistemico, psicodinamico,
psicoanalista, di quelle scuole, kleiniano, kohutiano e così
via. C’è sempre l’importanza di definire con grande chiarezza
di tipo di modello fa uso quella persona. Questo ha importanza,
perchè ne hanno i modelli.
Spesso poi i kleiniani vanno con i kleiniani, i kohutiani con
i kohutiani, i sistemici con i sistemici, i cognitivisti con i
cognitivisti e si creano tutte queste scuolette che nei servizi
spesso sono negative perchè spesso creano spaccature, antagonismi
e competizioni. Il problema non è tanto di confrontare
i modelli, cosa importantissima peraltro, ma anche di chiedersi
se sia possibile usare altre discipline, per esempio la filosofia,
la poesia, la letteratura, l’arte in modo che rispecchino i modelli
che noi usiamo e si possa vedere il nostro modello con un altro
linguaggio. Questo linguaggio ci fa vedere che sono possibili
dei ponti tra modelli che invece, se si utilizza il linguaggio
del nostro modello, non sono più possibili. L’allargamento
contaminante a un’altra disciplina non è un lusso di fantasia
perchè è più divertente ed interessante parlare
di Flaubert che di Kohut, ma perchè Flaubert ci può
aiutare a capire meglio che cosa ciò ha detto Kohut. Quando
si parla fra di noi bisognerebbe trovare delle modalità
formative che non siano soltanto la trasmissione dei modelli,
ma una trasmissione di modelli incarnati, arricchiti, potenziati
da una cultura umanistica, antropologica, letteraria e poetica.
Essa non dev’essere alternativa al modello ma deve dargli carne.
Il modello potrebbe essere lo scheletro, la poesia, la letteratura,
l’arte, la filosofia potrebbero essere i muscoli e il sangue.
L’uno ha bisogno dell’altro: non si può proporre solo una
metafora letteraria, ma non si può proporre neanche soltanto
un modello mentale puro e semplice, perchè altrimenti diventa
rigido.
Forse questo può far parte del discorso sui borderline
e sulla malattia sociale, in quanto nella nostra società
si va verso un riduzionismo sempre maggiore in nome di un’ipersemplificazione
dei concetti. Anche tutti questi discorsi sulle verifiche delle
prassi che si fanno sono importanti, ma bisognerebbe studiare
delle verifiche che non siano esageratamente coartative rispetto
a quello che si fa. Forse anche questo riduzionismo, che io prima
chiamavo comportamentismo, fa parte di uno sradicamento. Ci si
sradica rispetto a un linguaggio più umano, più
naturale per accettare un linguaggio che sia ipersemplificato,
iperrapido, ipercomunicativo. Quando si viene chiamati in televisione
la prima cosa che si richiede è di dire quella cosa in
due minuti, magari la teoria dell’inconscio di Freud. Noi ridiamo
ma loro non ridono: considerano assolutamente naturale questa
cosa, perchè fa parte del modello delle comunicazioni di
massa in cui tutto va reso facile, chiaro, sloganistico, la complessità
è aborrita, la semplicità massima è considerata
il valore principale.
Passo al terzo punto, dopo aver parlato dello sradicamento. Il
terzo punto è quello della genitorialità, sul quale
però non mi sento di dire molto. Penso che sia uno dei
problemi della nostra società il fatto che i genitori non
riescono a sapere cosa fare dei figli, che cosa dire loro, li
lasciano troppo liberi o li coartano troppo, li conducono troppo
o troppo poco, non sanno quali valori passare. Sicuramente nel
tema della genitorialità c’è tutto il tema dello
sviluppo infantile. La mamma col bambino è forse il modello
che è stato più studiato. Non credo però
che si possa ridurre la genitorialità all’accudimento di
un bambino da parte di una madre. Certo, quella è la base,
e benedetti gli studi che ci dicono tante cose su questo argomento.
Ci hanno aperto gli occhi su moltissimi punti: la regolazione
affettiva, lo sviluppo dell’immaginazione, la solitudine, il rispecchiamento,
il riconoscimento, la tenerezza, la sensualità e la sessualità
come due aspetti distinti. Penso però che sia molto importante
porsi il problema della genitorialità coi figli adulti:
di questa si parla di meno, ma uno è genitore sempre, non
soltanto quando il bambino ha sei mesi. I figli adulti non per
questo hanno meno bisogno o meno amore o legame con i genitori,
anzi certe volte hanno un legame ancora più forte, ma di
tipo tutto diverso. Non è il legame da dammi da mangiare,
fammi dormire, fammi divertire, ma da aiutami a capire come pormi
di fronte alla vita, cosa ne pensi tu, cosa ne penso io e vediamo
un po’. Io penso che questa tematica della genitorialità
andrebbe studiata, anche alla luce dei nostri pazienti (ce ne
parlerà tra un po’ la professoressa Vigorelli), per vedere
se queste tematiche sono estendibili da queste famiglie a una
modalità più generale.
Sicuramente uno dei temi della genitorialità è la
trasmissione di alcune ricchezze del passato. Noi crediamo che
il passato sia qualcosa da cui si possono estrarre tante cose
e che quindi non si debba liquidarlo troppo facilmente, perchè
è un enorme patrimonio che noi abbiamo. Questo riguarda
sia il nostro passato personale, sia il nostro passato culturale
nazionale, europeo, mondiale, religioso, scientifico, artistico,
letterario. Ho l’impressione che non ci sia una grande consapevolezza
di questa ricchezza, di questo patrimonio. Andrebbe studiato questo
tema: come mai c’è questo timore di affidarsi al passato
come a un patrimonio da utilizzare, non come a un modello da copiare,
come a un patrimonio dal quale estrarre idee e concetti, spunti,
esperienze. Questo è un punto molto grosso.
L’altro, forse più ancora, è ancora della Nussbaum.
Il genitore che si avvicina al figlio dovrebbe passargli qualcosa
che si potrebbe chiamare una curiosità amorosa per la vita,
come dice lei. Non si tratta tanto di dire si fa così.
Certo, quello è importante perchè la morale è
anche leggi. Ma, più ancora, quando vai verso l’altro,
verso il mondo io ti aiuto a trovare uno sguardo sufficientemente
libero, per rinnovare questo sguardo verso il mondo. Credo che
questo sia il messaggio più importante che può dare
un genitore, cioè un sostegno in questa faticosa libertà
di andare verso il mondo. È anche complicato andare per
il mondo liberamente, è molto più facile andarci
con dei concetti preformati: questi però impediscono la
formazione della creatività individuale. Questa idea che
in qualche modo il genitore possa essere il compagno verso questo
rapporto emozionale con l’esterno, con l’altro, a me sembra molto
interessante.
La Nussbaum usa il concetto del fiorire, il flourishing. Se noi
pensiamo che il figlio sia come una pianta che deve fiorire ci
avviciniamo a questa pianta dandole l’acqua, le sostanze nutritive
accettando però una dimensione di autoorganizzazione e
di autocreatività, favorendo insomma il contatto tra la
pianta e il mondo. Sono metafore molto vaste che però possono
aiutare a capire la sua proposta. Credo che questo sia proprio
quello che manca nelle famiglie dei borderline e in genere nelle
famiglie delle persone con disturbi del carattere. Forse comincia
a mancare in un po’ troppe famiglie.
In che modo i genitori da un lato si sottraggono a questo compito
di accompagnare un figlio verso la libertà e dall’altro
invece lo caricano di traumatismi, di angosce, di dolori, di temi
per cui c’è la role reversal, l’inversione del ruolo e
il figlio viene chiamato in qualche modo a fare da genitore al
genitore, altrimenti il genitore è troppo triste, malinconico,
preoccupato, geloso, disperato, affaticato. Questo capovolgimento
dei ruoli può comportare una difficoltà a svolgere
questa funzione determinando l’atrofia del nucleo centrale del
sé.
Vorrei concludere dicendo che c’è un libro molto bello,
che ho citato anche nel mio: un libro giapponese che si chiama
“Il cuore delle cose”, di Sozeki, uno scrittore dei primi del
secolo. È la storia di un figlio che cerca un padre, però
questo non riguarda necessariamente i padri, va benissimo anche
per le madri. Al di là dell’accudimento, della protezione,
del calore, dell’alimentazione che sono funzioni fondamentali
specialmente da piccoli, lui dice che essere orfani di un genitore
può significare non avere avuto questa persona che ti aiuta
a cogliere il cuore delle cose. Il cuore delle cose potrebbe essere
appunto l’idea che le cose le si conoscono con un giudizio emozionale,
oltre che con un giudizio razionale. L’emozione che ci suscita
una cosa o una persona è un bene prezioso, a cui non si
deve rinunciare facilmente, anche se quest’emozione non è
conformisticamente accettata. Accettare questa freschezza del
nostro modo di andare incontro alle cose era il dolore del protagonista
di questo romanzo che diceva di non aver avuto un padre che lo
aiutasse a fare quest’operazione, cioè andare nel mondo
fiducioso di quello che ci avrei scoperto. Mi sembra un punto
interessante.
Lo ripeto: sicuramente nelle famiglie sofferenti di disturbi del
carattere, questa dimensione è atrofica perchè c’è
il trauma intergenerazionale, perchè il genitore depresso
utilizza il figlio come protezione della sua depressione, perchè
c’è lotta in famiglia, perchè padre e madre non
si sopportano però al tempo stesso stanno attaccati, insomma
tutto ciò che conosciamo di queste famiglie. È possibile
che qualcosa del genere si stia estendendo anche a un livello
più sociale, cioè che la pressione conformistica
della società, l’allarme circolante, la pressione dei mass
media e i fenomeni di massificazione, di globalizzazione comportino
una difficoltà a mantenere vivo questo specifico punto?
Quest’apertura germinativa potenziale del rapporto con le cose?
E che invece noi siamo sempre premuti verso un troppo rapido schiacciamento
della risposta sulla domanda? Il bisogno dev’essere subito soddisfatto,
la richiesta non deve rimanere sospesa neanche un attimo. Questo
è il contrario della ricerca dell’emozione, che per essere
riconosciuta ha bisogno di un piccolo scarto tra la domanda e
la risposta. Se questo scarto viene regolarmente negato, come
quando il bambino torna a casa ed accende il computer o la televisione,
oppure esce e vuole subito un gelato. Come vogliamo capire questo?
Evidentemente c’è un timore di creare questo scarto, una
difficoltà a reggerlo con la fantasia, con l’immaginazione,
con la storia, con il gioco comune.
Mi rendo conto di aver detto delle cose molto generali, però
l’idea che volevo proporre era quella che se tiriamo fuori alcuni
concetti di fondo, non chiusi ma aperti, non rigidi ma vivi forse
essi ci possono aiutare ad affrontare il problema che abbiamo
visto questa mattina. Sono concetti a metà fra la dimensione
individuale, terapeutica e quella collettiva. Il concetto di nudità
nel borderline, quello di sradicamento e di genitorialità
sono molto ampi. Quello di genitorialità forse lo è
fin troppo, ma forse questi concetti ci possono aiutare ad orientarci
in questa tematica così difficile.
Intervento del pubblico.
Rispetto a quest’ultimo punto che lei ha trattato sulla genitorialità
mi interrogo su ciò che è di fronte agli occhi di
tutti. Forse di soggetti borderline ne abbiamo tantissimi proprio
perchè la famiglia attuale da un po’ di anni non ha più
funzionato come la famiglia precedente che veramente era in grado
di trasmettere valori, riagganciandosi alle tradizioni, al modo
di vivere, alla cura dei valori, all’attenzione. Di sicuro questa
famiglia sente che non è stata in grado di trasmettere
questi valori e sicuramente ha generato molti soggetti borderline.
Io mi domando che cosa genereranno questi soggetti borderline
che saranno la famiglia di domani: figli psicotici?
Intervento del pubblico.
Volevo tornare brevemente sull’immagine della nudità, nel
senso che non mi pare un’immagine efficace per spiegare le percezioni
del borderline, considerando che tutto sommato la pelle è
il filtro naturale di ogni organismo vivente. L’essere nudi è
quindi una condizione abbastanza naturale dove le sensazioni vengono
nella maniera corretta. L’uomo ci aggiunge i vestiti per proteggersi
meglio eccetera. Rende meglio l’immagine di questa patologia,
a mio parere, la mancanza di filtri del borderline, dove in caso
di pelle viva anche una sola carezza fa un male terribile. Il
mio è solo un suggerimento sul tipo di immagine.
Correale. Sì,
penso che in effetti bisognerebbe approfondire molto il tema dei
valori. Credo che si tenda a pensare che ci sia stata un’epoca
in cui le famiglie trasmettevano questi valori. Per esempio ai
primi del novecento Freud ha costruito tutta la psicoanalisi su
una critica della famiglia borghese, dicendo che la famiglia freudiana,
chiamiamola così, creava nevrotici, cioè che la
famiglia borghese dei primi del novecento era basata sulla rimozione,
sul fatto che di certe cose non si poteva parlare. Voi direte
che è meglio la nevrosi dei borderline, forse sì,
però non so se sia mai esistito un momento in cui la famiglia
teneva. Ci sono poi le famiglie patriarcali, quelle matriarcali,
quelle dei popoli monogamici, poligamici. Credo sia più
interessante chiedersi quale sia la specifica sofferenza della
famiglia di oggi, dei tempi di Freud, delle famiglie poligamiche
dell’Islam, in cui c’è una fortissima trasmissione di valori.
È potentissima, ma è altrettanto potente la denuncia
che questi valori fanno soffrire a altri livelli. Per esempio
c’è il tema della donna nel mondo islamico. Questo è
soltanto un esempio su cui c’è una vasta letteratura. Nella
famiglia ebraica tradizionale, c’era un grande potere della madre
che esercitava un controllo molto forte sui figli e che Woody
Allen prendeva in giro nei suoi film. Mi sembra giusto chiederci
verso quale patologia noi rischiamo di andare. Non condivido del
tutto che ci sia stata un’epoca in cui la famiglia era quella
giusta. Penso che come tutte le cose umane la famiglia abbia un
grosso potenziale. È necessaria e a seconda delle epoche
trasmette le difficoltà tipiche di quell’epoca. Certo,
al momento attuale la difficoltà sembra particolarmente
grave, perchè siamo in presenza di famiglie disgregate
molto spesso e di una società che non sembra in grado di
offrire a queste famiglie un aiuto. È anche questo il problema.
Io non credo che la famiglia da sola possa far tutto, tenere tutto,
sistemare tutto, aggiustare tutto. La famiglia è un nucleo
della società, sia pure fondamentale.
A me piacerebbe discutere dell’amicizia: è un fattore importante
del nostro mondo? Le associazioni politiche, culturali, sindacali
tengono come un tempo? La scuola, le classi dove i bambini vanno
a studiare, le università: certi temi disgreganti non passano
soltanto attraverso la famiglia. Certo essa è come un nucleo
di base e quindi è particolarmente importante indagare
cosa succeda a quel livello.
Io prenderei la domanda trasformandola così: qual’è
la specifica sofferenza della famiglia oggi? Non so se i figli
di domani saranno psicotici ma penso di no, anche perché
penso che la psicosi sia una malattia molto specifica, con delle
caratteristiche specifiche. Azzarderei, ma faccio una battuta,
che il rischio è che ci sia un’isterizzazione. Il rischio
per il domani è che ritorni in primo piano l’isteria, intendendo
per essa la teatralizzazione, l’esteriorizzazione dei comportamenti,
una tendenza a valorizzare l’aspetto più che la sostanza,
ad attaccarsi ad emozioni transitorie, superficiali, molto eccitanti
sul momento ma poco durature. Secondo me questo è il rischio
del domani, che, contrariamente a quanto si dice in giro, l’isteria
possa riprendere piede come una forma di conformismo eccitato.
Questo va però verificato.
Quanto al suggerimento sono d’accordo. Con la nudità intendevo
dire la pelle come organo delicato, feribile, il dermografismo,
se ci passo una punta sopra resta una traccia rossa. La pelle
cioè non tanto nella sua versione protettiva ma di apertura
al traumatismo esterno. Mi piace l’idea del decorticamento. Mi
pare che il collega avesse capito perfettamente, anzi che si fosse
sintonizzato forse ancora meglio con l’immagine su quello che
volevo dire.
Intervento
del pubblico. Riguardo a questi stimoli sulla contaminazione
culturale mi viene in mente un libro che ho letto recentemente,
di Johnathan Coe, “La pioggia prima che cada”. È la storia
di situazioni di borderline di tre generazioni di madri. Mi sembra
davvero molto significativo perchè, senza utilizzare un
linguaggio di tipo psicologico ma molto pregnante, racconta di
tre situazioni border. Ci sono queste madri che fuggono lasciando
le figlie, e il racconto finisce con un trauma molto grosso: nel
senso che la madre picchia violentemente la figlia e la fa diventare
cieca.
Correale.
La ringrazio, anch’io sono un lettore di questo autore,
anche se non ho letto “La pioggia prima che cada”. Mi pare molto
azzeccata la citazione: lui dice che con la Tatcher si sarebbe
verificato in Inghilterra un fenomeno di sradicamento di massa.
Lui denuncia questa proposta di una liberalizzazione massiccia,
di mettere l’economia al primo posto, che peraltro ha arricchito
in una certa misura l’Inghilterra, l’ha svecchiata per molti versi,
come se il prezzo pagato per questo arricchimento fosse stato
quello di uno sradicamento. Cioè questa corsa alla ricchezza,
al benessere, al successo, all’accumulo di denaro avrebbe impedito
gravemente all’ultima generazione, quella della Tatcher, di collegarsi
con la precedente. Questo avrebbe portato a uno sbandamento molto
grave. Il tema mi sembra proprio quello del libro che lei citava:
la famosa Old England, criticabile per certi versi ma anche amata,
perchè trasmetteva una forza, si sarebbe completamente
frammentata in quest’operazione massiccia di rilancio di nuovi
valori. Questo per dire che lo sradicamento non è soltanto
legato alla trasmissione di popoli da una terra all’altra, che
forse è la forma più plateale di sradicamento ma
anche a delle gigantesche trasformazioni culturali che possono
avvenire apparentemente senza che ce ne si renda conto.
Marta Vigorelli. Io
mi focalizzerò in particolare su un aspetto della cornice
che ha presentato Correale. Vorrei partire da un momento lirico
leggendovi questo breve brano di Borges che è rivolto al
figlio. Esso mette proprio in questione la vicissitudine transgenerazionale,
che è il tema che vi ho portato lo scorso Aprile nel precedente
corso di formazione. Conoscerete le “Rovine circolari”: c’è
questo uomo che in modo affaticato e inquieto va alla ricerca
di come sognare il figlio. È per lui una materia ostica,
drammatica e complicata. A un certo punto afferma: “non sono io
a generarti, sono i morti, sono mio padre, il suo, i loro maggiori,
quelli che un lungo dedalo di amori tracciarono da Adamo e dai
deserti di Caino e di Abele, in un’aurora così antica che
ormai è mitologia, per giungere, midollo e sangue, al giorno
del futuro, a quest’ora in cui ti genero. Ne sento l’affollarsi
(di queste generazioni): siamo noi e tra noi sono con te i futuri
figli nati da te, saranno gli ultimi insieme a quelli di Adamo
e io sono essi. L’eternità sta nelle cose del tempo, nelle
sue labili forme”. Questo modo di porre la questione del figlio
come possibilità inanzitutto di desiderarlo, nel senso
di cui parla Freud quando intende il sogno-desiderio come quella
prima forma, quel primo abbozzo di un principio finalistico e
teleologico del soggetto che è il risultato di un incontro
soddisfacente tra il patrimonio che eredita e che Freud dice dovrà
essere conquistato (sia ben inteso: non basta che venga trasmesso
ma va riconquistato) e la propria individualità. Tra un
potenziale vitale e la sua forma possibile. È come se Borges
intuisse questa dimensione.
Ritengo che sia possibile comprendere a fondo la genitorialità
se si tien conto di questo significato che ciascun figlio ha nella
fantasia, in questo modo desiderante, conscio, ma consapevole
anche di questo aspetto più inconscio dei genitori nell’atto
di produrre il concepimento. Un aspetto terribile della nostra
società è quello di perdere - mi ricollego al discorso
dello sradicamento che ha fatto Correale - anche le radici inconsce
oltre a quelle territoriali, relazionali e di appartenenza di
questo desiderio, se pensate a tutta l’ingegneria che si sta in
qualche modo mettendo in atto attraverso le grandissime scoperte
della scienza relativamente a questa costruzione artificiale della
creazione. Questa è un’altra area di riflessione molto
interessante e al contempo di grande preoccupazione se naturalmente
non viene utilizzata in senso umanistico, superando l’illusione
di controllare la generatività in una direzione che mi
pare sempre più orientata a una fantasia di autogenerazione,
con il prepotente emergere di bisogni narcisistici, e di affermazione
di sé solo in senso individualistico. Questo impedisce
il riconoscimento dell’altro, del figlio come altro, dell’alterità,
del figlio come diverso da sé. È una modalità
di potere sul figlio che annulla anche il divario tra le generazioni;
e questo vale non solo per le famiglie borderline ma più
in generale. Da questo punto di vista mi pare che i processi di
trasformazione che hanno investito la società di cui abbiamo
parlato, la perdita dei riferimenti interni, lo sradicamento e
di quelli che sono i garanti metasociali (ad esempio l’autorità),
stiano attraversando tutt’e tre queste dimensioni: la famiglia,
la coniugalità, e la genitorialità. In particolare
la coppia: Vi ricordate Eiguer quando ne abbiamo parlato in Aprile?
Il primo organizzatore è la coppia e i grandi passaggi
che l’individuo deve fare sono quelli del lutto dalla propria
famiglia di origine, dalla propria identità di individuo
singolo (single) e la scelta del partner che spesso ha delle motivazioni
non consapevoli, per approdare a questo quarto livello che è
quello della genitorialità. Se si saltano dei passaggi
noi lo vediamo quando i nostri pazienti arrivano nei nostri studi
dopo che questi passaggi si sono collassati, per cui sono passati
direttamente da una non separatezza dalla propria famiglia d’origine
all’applicazione della genitorialità senza affrontare tutti
questi passaggi. L’aspetto dell’assunzione della genitorialità
diventa dunque sempre più fragile, abnorme, perverso e
pervertito.
In particolare sono molto d’accordo con Correale sul fatto che
la genitorialità risente di questo disagio profondo soprattutto
rispetto al tema dell’identità. Questa è tutta una
visione che io sento presente nelle origini della psicoanalisi
e del pensiero di Freud per cui generare è al contempo
identificarsi con qualcuno che nascerà e identificarsi
anche con i propri genitori. Identificarsi, non trasportare fardelli
inconsapevoli. Direi che la fragilità a cui assistiamo
dell’assunzione del ruolo genitoriale risente oggi in un modo
estremamente drammatico di questa incertezza dell’identità.
Cito un bel lavoro di Daniela Lucarelli nel libro “Quale psicoanalisi
per la famiglia” che vi consiglio, in cui si spiega bene il fenomeno
per cui oggi i genitori hanno molto bisogno dei figli per rassicurarsi
di un’identità che è sentita vacillante, non per
generare processi identificativi e non come possibilità
di esprimere una parte costitutiva della propria potenzialità
psichica e biologica o come un dar forma a una continuità
generazionale. I figli servono per dire: so generare, sono potente,
sono capace io. Ciò che si sta perdendo, riprendo Kaes
che si è molto occupato di questa tematica della transgenerazionalità
e della continuità, è la forza libidica dell’identificazione,
come principio del legame intersoggettivo, come materia prima
delle istituzioni stabili, quindi non delle istituzioni in quanto
tali, ma di quelle potenzialmente sane, protettive dall’angoscia,
in quanto sufficientemente regolate dalla legge che colloca ciascuno
al suo posto nell’insieme, una legge del cuore sia beninteso,
una legge anche riflessiva, non una legge che reprime e comprime,
dove c’è un posto di ciascuno nell’insieme.
Questo problema dell’incertezza, della fragilità identitaria
porta i genitori a oscillare fra due movimenti, da un lato quello
che tende a negare la specificità del ruolo, tutti i casi
che ci arrivano in supervisione presentano costantemente queste
situazioni in cui non c’è più la differenza tra
le generazioni, tutto è confuso e la specificità
del ruolo viene vissuta con paura; ci chiediamo però -
e questa è la proposta del nostro incontro di oggi - c’è
la possibilità di non ritornare al passato idealizzato
ma di inventare possibilmente modi nuovi in questa situazione
di trasformazione? Credo che questa sia la sfida del futuro.
Rispetto alla fragilità della genitorialità un problema
che io vedo centrale nei pazienti sia in privato che dei servizi
e in particolare nella patologia borderline è questo sentimento
di insicurezza e di paura circa il riconoscimento del proprio
ruolo, che però è anche la paura di accettare una
sana e adeguata esperienza di dipendenza. Questa si trasferisce
nei servizi ai nostri operatori che fanno fatica ad accettare
la richiesta di dipendenza dei pazienti. È un fenomeno
molto generalizzato purtroppo: i genitori sono sempre più
insofferenti rispetto allo stare con questi bambini. Parto da
loro perchè voi sapete che i primi tre anni sono quelli
in cui si forma la nostra struttura psichica, anche se poi ci
sarà possibile costruire legami in ogni fase della vita
come sostiene la teoria dell’attaccamento. Io dico questo alle
mie pazienti mamme con una certa fermezza, che è importante
quello stare e quell’accettare che il bambino abbia bisogno di
noi, nelle fasi ovviamente in cui è necessario. Si tratta
di far vivere questo come un fatto naturale.
Paradossalmente in un’epoca che tende a ipostatizzare l’autonomia,
le aspettative di riuscita e di successo, non c’è spazio,
non ci sono neanche i luoghi per stare con i bambini, nè
i tempi. Le mamme lavorano, tornano affannate, hanno da ritagliare
il tempo tra una baby sitter e l’altra. C’è il manualetto
che indica che bisogna giocare con i bambini, ma è tutto
un artificio rispetto alla spontaneità dell’essere con
il bambino nella dipendenza. Quindi assistiamo al fatto che si
è passati da un conflitto generazionale molto potente negli
anni del ’68 a un’inversione generazionale. Ci si mette al posto
dei propri genitori inconsapevolmente con i loro fardelli e si
richiede ai figli di fare i genitori, come è già
stato accennato poc’anzi e questo è quello che Racamier
chiama l’antiedipo, il saltare l’Edipo, o additittura la fantasia
inconscie dell’autogenerazione. Nella pratica clinica vediamo
spesso come i pazienti che sono magari adulti non hanno potuto
fare i bambini, con i loro tempi, con le loro esigenze, con i
loro bisogni. Correale parlava dell’accompagnamento al mondo ma
io penso che per molti di loro divenuti pazienti non ci sia stata
sufficiente protezione. Noi abbiamo bisogno prima di tutto di
dare questa sicurezza e questa protezione. I figli poi ad un certo
punto vanno anche da soli quando hanno ricevuto sicurezza e accompagnamento.
Un accenno al caso di Chiara che da piccola ha dovuto assorbire
la depressione gravissima della mamma poi le pressioni di un padre
borderline. Ho un certo numero di pazienti figli di genitori borderline,
almeno di uno dei due compagni della coppia. Come sono questi
figli? Sono pesantemente iper responsabilizzati: ad esempio quando
Sara aveva diciassette anni e il padre non lavorava e girava come
un nomade, pur venendo da una famiglia assolutamente benestante,
si era messa a lavorare e a studiare di notte. Alla fine è
scoppiata nell’attacco di panico classico che è il grande
segnalatore di una struttura che si rompe nella duplice tensione
tra separazione e individuazione. O si sostituiscono ai genitori
in questo iperadultismo che poi fa ammalare, oppure sono dei figli
borderline a loro volta. È difficile che una situazione
così turbolenta procuri psicosi perchè possiamo
dire che il debito delle famiglie tradizionali purtroppo, quindi
non idealizziamole, è stata la psicosi spesso con l’antecedente
della distanza emotiva, dei segreti e di cornici molto rigide.
Vediamo adesso un po’ di didattica. Quali sono in generale i punti
di vista con cui affrontare questo problema della genitorialità
borderline dopo questa premessa più ampia? Quali sono i
risultati della ricerca soprattutto di un modello molto diffuso
nei servizi che è il modello biopsicosociale che ha detto
delle cose molto interessanti sui disturbi di personalità?
Vediamo alcune osservazioni cliniche su coppie borderline e un’ipotesi
di intervento (questa sarà la seconda parte del mio discorso).
Il modello cui vi accennavo, quello di Joel Paris ci dice che
ci sono dei fattori di rischio scientificamente provati per poter
produrre la patologia borderline, che si manifestano su tre livelli.
Uno è biologico e qui mi rifaccio al lavoro che riferiva
Correale di Gabbard intitolato “L’interfaccia mente cervello nel
disturbo borderline”, ora tradotto anche in italiano. Gabbard
ha individuato la difficoltà nell’utilizzo della psicofarmacologia
per questi danni dovuta al fatto che la compromissione che comporta
questo disturbo è trasversale e intacca varie aree cerebrali,
oltre ovviamente l’ippocampo che è il luogo della memoria
di lavoro e della memoria a lungo termine, l’amigdala, la corteccia
prefrontale che corrisponde al danno della mancata mentalizzazione
e un circuito interessantissimo, esplorato di recente nei pazienti
che utilizzano sostanze. Essi hanno questo disturbo della dipendenza
che si manifesta anche spesso una dipendenza, (non quella positiva
di cui parlavo prima), patologica delle coppie borderline, che
corrisponde a una gratificazione, anche a livello biochimico.
Questo ci fa intuire i motivi per cui è così tenace
e così resistente questo meccanismo della ricompensa. Questo
livello biologico che è a mio avviso un’area su cui sempre
più in futuro ci saranno nuovi dati ed esplorazioni interessanti
si collega a un secondo livello psicologico che ben conosciamo,
collegato all’esperienza traumatica, agli stili comunicativi disfunzionali,
a un attaccamento disorganizzato, disorganizzante e traumatico.
Il terzo livello, provato scientificamente è quello per
cui la destrutturazione dei valori tradizionali, tipica della
società occidentale, la perdita di valore di alcuni modelli
sociali è un elemento fortemente condizionante questa patologia.
Le ricerche che abbiamo in realtà non hanno dei dati così
incontrovertibili, anzi è difficilissimo isolare in esse
l’aspetto eziologico, cioè l’origine del disturbo rispetto
all’aspetto sociale. È però possibile individuare
dei meccanismi che abbiamo già accennato, il tema dell’instabilità
del tessuto sociale, i cambiamenti, le richieste eccessive che
vengono fatte a bambini, adolescenti e giovani adulti le aspettative
di una autonomia senza un momento naturale di dipendenza e di
interiorizzazione di tutto quello che viene comunicato nei primi
anni di vita. C’è un’esigenza di entrare nella società
senza delle aspettative prevedibili come accadeva prima e dentro
a ruoli difficilissimi a cui accedere: mi riferisco per esempio
alla difficoltà di entrare nel mondo del lavoro per i giovani
attuali che è un problema veramente drammatico. Pensate
che dal punto di vista delle ricerche è stato riconosciuto
come un elemento fondamentale il recupero del ruolo sociale o
la perdita del ruolo sociale e lavorativo proprio per questo tipo
di patologia, molto più che per quella psicotica. Vediamo
pazienti borderline che con la perdita del ruolo sociale e del
lavoro hanno acuito tutte le tendenze e le dipendenze patologiche
mentre il recupero, anche attraverso la psicoterapia, almeno di
questa area è fondamentale per poter mantenere un minimo
di assetto di stabilità. Poi essere nel mondo del lavoro
significa avere delle relazioni, quindi occorre aiutare i pazienti
ad essere in grado di gestirle. La difficoltà che c’è
attualmente di entrata nel mondo del lavoro dal punto di vista
di questi giovani è un altro elemento su cui riflettere
e non a caso i nostri servizi operano molto in questo senso innestando
questa problematica dentro una visione globale del processo terapeutico,
perchè se fosse scissa in modo meccanico questi pazienti
andrebbero a lavorare facendo disastri e tornando indietro.
Un altro meccanismo che la psichiatria sociale ha evidenziato
e che notiamo in tutte le situazioni di coppie borderline è
quello ripreso da Durcheim che è il concetto di anomia
sociale, cioè di assenza di regolazione, o di regole pervertite
o senz’anima, senza cuore, ma in particolare un’assenza o una
contradditorietà delle regole. Abbiamo già parlato
della disgregazione e del fallimento del funzionamento familiare,
così come delle relazioni traumatiche. Vi volevo ricordare
questo dilemma costante tra le richieste eccessive che vengono
fatte a questi giovani, con la mancanza di questa fase precedente
e l’assenza di regole che rende sempre più difficile raggiungere
questa autonomia.
Vediamo un affondo più specifico sul tema della coppia,
come vi avevo accennato nel titolo. Una cosa che davvero stupisce,
osservando sia l’esperienza nei nostri studi privati che nei servizi
è il notare come certi legami che Correale definiva passioni
mortifere, abbiano un tenacia e un accanimento nel tempo, che
è al di là delle terribili conseguenze che comunque
queste relazioni procurano ai partner della coppia. Uno spunto
che viene pensando alla teoria dell’attaccamento disorganizzato
è quello di riconoscere in queste coppie un nucleo che
ha a che fare con una sorta di terrore senza sbocco vissuto nella
coppia, quello per cui il partner è comunque una base d’appoggio,
di attaccamento e al contempo è anche l’emanatore del terrore.
Su suggerimento sempre di una lettura comune con Correale ci sono
delle espressioni di questo romanzo di Roddy Doyle, “La donna
che sbatteva nelle porte” che rendono in modo assolutamente incisivo
questo stato, quello per cui queste coppie ammettono contemporaneamente:
mi amava e mi picchiava, io lo amavo e mi facevo picchiare, non
riesco a tenere separato l’amore dalle mazzate. Questa frase condensa
tutta questa drammatica passionalità, spesso sadomasochista
e questa inscindibilità dell’amore con questo elemento
violento. E molto spesso è quanto ci capita sotto gli occhi.
Gabbard ipotizza che queste relazioni, e qui passiamo dalla letteratura
alla scienza, siano così costrittive, così in qualche
modo inesorabili e ripetute, dipendenze quindi di tipo patologico
perchè hanno una componente di tipo consolatorio. Attraverso
valutazioni con la PET e la neuroimaging si è riscontrato
che nel circuito di queste persone dipendenti la produzione di
dopamina che funziona come una sorta di compensazione e di gratificazione
di questa dipendenza. La cosa interessante è che attivandosi,
disattiva quella delle emozioni negative. In questo romanzo la
cosa incredibile è che questa donna, come per le coppie
che spesso arrivano nei nostri studi, c’è una totale dimenticanza,
un totale oblio del momento di acuta violenza in cui il partner
ha infierito, come una sorta di cancellazione dissociativa di
tutta l’esperienza che è stata vissuta per cui il giorno
dopo si ricomincia daccapo e succede esattamente la stessa cosa.
Ho due esperienze da portarvi su come affrontare queste coazioni
e su come sia possibile interrompere questo meccanismo inesorabile
e coattivo in coppie che poi generano figli. Incredibilmente avviene,
come nel romanzo, che proprio il figlio o la figlia in qualche
modo fanno da segnalazione a questa coppia che non è possibile
andare avanti così, soprattutto nel caso in cui almeno
uno dei due partner abbia delle aree di funzionamento normale,
e in genere si tratta delle madri. Quando si accorgono che anche
sul figlio può trasferirsi questo stesso meccanismo violento
e coattivo è come se avvenisse una sorta di risveglio di
questo altro da sé. Di questa piccola porzione per cui
il figlio fa da promotore della cura dei genitori. Quante volte
a me è capitato di cogliere come anche nella psicosi il
dramma, la sofferenza della malattia sia un modo per richiamare
a una verità del genitore e anche a una possibilità
per il genitore di entrare e di rimettersi nela cura. In entrambi
i casi a un certo punto la moglie chiede aiuto proprio perchè
ha visto che nel figlio si può ripetere il suo stesso dramma.
In una situazione di queste la protagonista è una donna
intelligentissima, con livelli di funzionamento veramente elevati
sul piano sociale lavorativo e invece tutta questa intimità
borderline con il marito che la picchiava e la aggrediva sessualmente.
Si scoprì nel corso del trattamento che per lei era normale
che il proprio figlio di 8 anni dormisse nella stessa stanza dei
genitori, quella in cui periodicamente avvenivano scenate terribili,
“perché tanto ... lui dormiva …” Come se fosse la cosa
più ovvia del mondo. Non parliamo di questa abitudine che
hanno purtroppo le coppie attuali di tenersi i figli nel letto,
per non alzarsi a soccorrerli nelle chiamate notturne. Questa
donna intelligente, colta e sensibile è arrivata da me
comunicando di aver capito a un tratto, di colpo, che così
non poteva andare avanti. Mi racconta: "camminavo con mio
figlio in una strada tranquilla e c’è stato un incontro
casuale con un mio compagno di liceo. Abbiamo parlato, sempre
camminando lentamente e siamo arrivati fino al Parco delle Basiliche,
e il mio bambino mi ha detto: mamma, com’è bello parlare
e camminare tranquillamente in questo prato”. L’espressione intensa
di questo bambino, molto sofferente in questa coppia, rivela alla
mamma come sia possibile stare tranquillamente a camminare e a
parlare anche con un altro uomo. Questa immagine folgorante e
la comunicazione autentica del figlio l’ha portata a chiedere
aiuto. È iniziata tutta la storia, una storia positiva
che ha comportato il problema della separazione della donna da
questo uomo altrettanto geniale, fascinoso e terribilmente violento
ma avvinghiato a lei anche con vissuti abbandonici.
È molto importante ipotizzare in questi casi, tutta una
serie di interventi che proteggano questo nucleo germinante di
richiesta salvifica d’aiuto per la mamma e per il bambino, in
modo tale da poter non avere una ritorsione rispetto alla scelta
della cura. Per esempio un’ipotesi che io suggerisco e che sto
utilizzando in modo molto efficace è quella di accompagnare
il trattamento della persona più consapevole della coppia
borderline con un trattamento di coppia in cui si chiede al marito
di partecipare e, alcune volte sulla pressione della sofferenza
abbandonica, questo può avvenire. È opportuno poi
che vi sia un supporto anche legale con avvocati che abbiano una
sensibilità psicologica, cioè un’area gruppale che
protegga questo progetto di nascita di una soggettività.
È incredibile come questo bambino di otto anni, che prima
era il bambino perfetto e bravissimo a scuola, da quando la mamma
ha cominciato ad entrarare in cura ha manifestato una serie di
sintomi psicosomatici, incubi, rossori, paure, lasciando finalmente
venir alla luce, tutto quello che ha assimilato nel corso di quest’inferno
familiare.
Vi racconto un altro esempio clinico. Quello di Mara, a differenza
del caso precedente ha avuto invece un risvolto veramente drammatico,
su cui vorrei allertarvi: quando uno dei due coniugi chiede aiuto
e invece l’altro non è sufficientemente contenuto da un
supporto psicologico e non lo accetta perché nega massicciamente
i propri disturbi, in più di un’occasione mi è capitato
di notare che il vero rischio, considerando che la separazione
legale non tutela abbastanza il bambino, è che il coniuge
si rifaccia sul figlio tendenzialmente con delle modalità
di abuso. Questi tre casi mi hanno ovviamente allertato sul fatto
che anche quando c’è una richiesta di separazione autentica
da parte di uno dei due componenti della coppia è assolutamente
importante supportare anche l’altro, quello più border,
diciamo, dei due. Il rischio infatti è enorme. Oltretutto
pensate che adesso la legge ha previsto la genitorialità
congiunta, l’affido congiunto dei coniugi per cui il coniuge ha
tutto il diritto di vedere il bambino, lo vede come possesso e
più che altro ristabilisce lo stesso tipo di attaccamento;
se non è consapevole e sostenuto psicologicamente non può
fare altrimenti e trasferisce sul figlio il medesimo legame disorganizzato
con tutto il carico che questo comporta; la violenza e in genere
anche l’abuso sessuale.
Concludo questo mio intervento con un’osservazione di Gabbard
in questo suo lavoro molto bello, “L’interfaccia mente cervello”,
con un’immagine che arriva dalla neurobiologia ma è anche
un’immagine vitale. Lui afferma che, tanto sono sedimentati i
traumi nelle reti neuronali e nella compromissione delle aree
cerebrali, tanto deve essere potente e ipotizzato in un modo veramente
saldo il trattamento mirato a nuove modalità relazionali.
Non è sufficiente un unico terapeuta come non lo è
il trattamento di un solo elemento della coppia, perchè
bisogna lavorare in parallelo a “sfuocare, desensibilizzare le
reti traumatizzate e al contempo instaurare nuove reti” e questo
instaurare nuove reti significa relazione individuale personalizzata,
relazione con la coppia, nel gruppo e cure psicofarmacologiche.
Significa immettere “reti sociali naturali” laddove mancano i
supporti alla famiglia e tutto quello che può essere utile
per dare vita a nuove modalità relazionali. Concludo con
questa sua frase che esprime speranza: “la sfida al superamento
dei vecchi modi che hanno per il paziente un richiamo alla dipendenza
precedente (la ricompensa consolatoria della dopamina) è
formidabile”. Noi dobbiamo immettere questa sfida nei nostri pazienti,
però anche tutta la protezione possibile ed è assolutamente
necessario proseguire la ricerca in questo campo.
Intervento
del pubblico. Mi riferisco alla
dipendenza anche da parte dei figli grandi, adulti, i famosi bamboccioni,
come sono stati chiamati da un nostro politico, che spesso viene
legata a un eccesso di genitorialità e invece mi sembra
di poter leggere come un permanere nella ricerca di quella dipendenza
sana e legittima che forse non è stata concessa in virtù
di questo bisogno di un’autonomia precoce dei figli che secondo
me apre un modo veramente nuovo sia a livello terapeutico, sia
sociale, sia personale di affrontare questo problema.
Intervento
del pubblico. Alla luce di quello
che tu hai detto ripropongo due questioni che sono un po’ ripetitive
però diventano sempre più di grande spessore. A
proposito del tema della dipendenza all’interno dei Servizi c’è
una difficoltà tra chi deve curare a comprendere questo
tema della dipendenza, che poi è anche un argomento della
cura. Per cui sulla questione del borderline che “manipola” siamo
a livelli che non so come possiamo gestire perché da parte
dei curanti c’è un atteggiamento totalmente liquidatorio,
con tutto quello che ciò comporta. Si crea così
un’impossibilità alla cura, cioè viene a mancarne
il presupposto ed io non so come affrontare questo problema perchè
non è legato solo alla formazione. L’altra questione è
che quando tu dici che bisogna mobilitare un sistema di cura,
per cui non c’è solo un intervento sul singolo mi sembra
che anche questo sia un tema da affrontare perchè quando
parliamo di Servizio pubblico mi chiedo come trasportare all’interno
del Servizio stesso questa modo allargato di curare. E nello studio
privato succede altrettanto, perchè per un singolo professionista
mobilitare questo tipo di risorse non è solo un problema
culturale ma significa anche la difficoltà di trovare in
un sistema non strutturato, come invece è quello istituzionale,
una serie di collaborazioni di questo tipo.
Vigorelli.
Sarebbero interessanti interventi anche di altri servizi su questo
tema, molto caro a Correale, dell’intolleranza degli operatori
alla dipendenza. Si parla di formazione. Certo, però ci
stiamo interrogando su quale tipo di formazione. Ci sono tanti
livelli della formazione che possono essere utilizzati che spaziano
dalla supervisione ai momenti specifici proprio su questi temi
di competenza. C’è poi la possibilità di inserire
connessioni con l’università con una contaminazione feconda
del servizio su alcuni specifici argomenti. Insomma il tema della
formazione è cruciale per aiutare gli operatori, soprattutto
per quelli che tendono ad avere problemi in prima persona rispetto
alla genitorialità. Molti operatori giovani in particolare,
scelgono queste professioni di cura spesso quasi come una forma
di esportazione di problemi propri sugli altri, in quella forma
di accudimento che hanno magari proprio i bambini borderline come
uno dei sistemi motivazionali dell’attaccamento. Accudiscono perchè
non sono stati accuditi da un lato, però dall’altro espellono
anche perchè non hanno quell’elemento di forza e di continuità
che consente la stabilità, per cui magari accudiscono un
po’ poi mollano, poi tornano ad accudire e così via senza
comprendere se l’altro ne ha necessità, se lo richiede
ed è disponibile a ricevere. Secondo me la strada è
sempre quella della formazione pensata a più livelli con
più possibilità . Chiederei a Correale di intervenire
su questo perchè è uno dei punti che lui ha trattato
nel suo libro “L’area traumatica e il campo istituzionale” ed
è un capitolo davvero importante e decisivo.
Per quanto riguarda l’attivazione dei sistemi di cura nelle situazioni
anche private io devo proprio al lavoro nei servizi pubblici questa
assimilazione interna di una gruppalità anche di competenze,
per cui mi sono data da fare un po’ , per esempio per organizzare
il contatto con dei professionisti in campo legale, di specialisti
per le forme psicosomatiche, con centri di terapia familiare.
Le connessioni certo sono costose dal punto di vista dell’impegno,
però di fatto consentono di aver nella mente, di fronti
a situazioni complesse, un menù di eventualità e
di possibilità per cui, come è ormai assodato che
si può inviare il paziente allo psicofarmacologo psichiatra,
questo vale anche per il consulente legale intelligente o il giudice
particolarmente sensibilizzato, o ancora al consulente di coppia
o di famiglia che può collaborare su questi temi con noi.
Si tratta però anche di avviare dei percorsi interni, personalizzati
su questi aspetti.
Imparando come sempre dagli errori e dall’esperienza: per esempio
mi viene in mente il caso di M veramente drammatico; avevo intuito
la necessità di un intervento a domicilio per osservare
il rapporto, in sua assenza, tra la sua bambina e il padre da
cui si era burrascosamente separata. Le ho proposto una giovane
educatrice, per vedere cosa succedeva in quella relazione nei
confronti della quale Mara. sembrava mostrare una sorta di inquietante
diniego. C’era una cecità, una scotomizzazione, partendo
da una passiva sottomissione alla legge che aveva decretato che
il padre doveva avere la figlia in determinati momenti della settimana;
però oltre alla comunicazione di alcuni incubi, l’intuizione
di alcuni sintomi che la mamma mi portava della bambina, sintomi
classici d’abuso, mi avevano fatto pensare che c’era un’area di
incapacità di vedere della madre, e che per aiutare lei
e la figlia, in qualche modo lì ci doveva essere qualcuno
che potesse testimoniare di “qualche cosa” che la mamma non riusciva
a vedere. È stato attraverso il lavoro di questa giovane
educatrice che si è aiutata la bambina pian pianino a rendersi
consapevole di quello che stava succedendo e poi si è lavorato
anche per un’indicazione al padre in modo da evitare i disastri
delle denunce. Anche attraverso un mio “non vedere” è nata
un’ipotesi di aiuto. Oggi c’è un potenziale lavoro straordinario
per i giovani psicologi ed è quello di poter aiutare e
sostenere la genitorialità delle mamme, così affaticate
e sotto pressione o fragili nella loro funzione. Si possono formare
persone giovani e sensibilizzate psicologicamente ad essere presenti
in queste case dove non c’è tempo per stare per i bambini,
perché intanto ascoltino, osservano, vedano, giochino e
facciano da tramite a queste mamme che non hanno tempo per vedere,
ascoltare eccetera. Le mamme infatti comunque devono andare a
lavorare, se no non si sbarca il lunario. Sono delle formule nuove
che bisogna inventare per rendere questa genitorialità
possibile, laddove fallisce la struttura tradizionale “sufficientemente
sana” della famiglia.
Correale.
Sono d’accordo con l’invito della professoressa Vigorelli: anche
a me sembra un tema molto importante questo dell’accettazione
della dipendenza. Credo che forse si potrebbe anche espanderlo
e dalla difficoltà dei servizi accettare la dipendenza
dei pazienti gravi. Si potrebbe, a partire dagli operatori dei
servizi chiedersi quanto la nostra società nell’insieme
accetta la dipendenza oppure è schiava di una fanatsia
di autonomia e di autigenerazione. A me sembra molto interessante
questo: se non si incarna la nostra competenza nel fatto che quando
parliamo con i nostri pazienti, attraverso il modello, aderenti
nella cornice del modello, dobbiamo anche un po’ parlare di qualcosa
di cui noi sappiamo di cosa si stia parlando. Io penso che questo
ci permetta l’accettazione della dipendenza, cioè il mettere
in gioco noi stessi non in un modo sregolato ma in un modo che
faccia sì che noi sappiamo di cosa il paziente ci sta parlando
e quindi possiamo metterlo in sintonia. A me sembra che il concetto
di accudimento non sia un concetto utile perchè l’accudimento
presuppone l’idea del bisogno della sua soddisfazione che è
una cosa importante, però qui credo che più ancora
del bisogno ci sia un problema relativo alla condivisione del
dolore. Io mi sintonizzo col tuo dolore e trasformo l’angoscia
e l’insoddisfazione in un dolore consapevole. Per far questo io
operatore devo aver fatto questa operazione col mio dolore, cioè
devo essere stato anch’io più o meno laddove ti trovi tu
ma essere poi ritornato e allora ti posso parlare. Infatti non
so chi diceva che gli operatori dovrebbero essere convalescenti
delle stesse malattie che vogliono curare. È chiaro che
non possiamo diventare tutti psicotici o tutti borderline, ci
mancherebbe altro, però in qualche modo aver sentito che
noi siamo tornati da un luogo dove però siamo stati più
o meno mi sembra molto importante. È l’aspetto della condivisione
del dolore che però in qualche modo è stato superato,
perchè altrimenti si parla sempre del dolore di un altro
ed è difficile accettare la dipendenza se non si mette
in moto una nostra esperienza di dolore e di lutto (un tema di
cui tratta molto Marta Vigorelli è il lutto congelato).
Oserei dire che l’altro aspetto è quello dell’immaginazione:
credo che bisognerebbe inserire nella dipendenza dell’altro un
elemento immaginativo nostro per parlare in un modo che faccia
sentire al paziente che noi abbiamo una fantasia, che non siamo
soltanto persone che applicano tecniche, ma che le applichiamo
mettendoci un guizzo d’immaginazione personale, un’immagine, una
citazione, un film, insomma una cosa che rompe lo schema atteso
e introduce qualcosa che il nostro paziente dice: “mah, questa
cosa mi colpisce”. Oppure una cosa che dice il paziente e alla
quale rispondiamo: “questa cosa che lei dice mi colpisce!”. Allora:
dolore e immaginazione come elementi personali regolati assolutamente
e messi in gioco possono favorire l’accettazione delle dipendenze,
se invece noi siamo i primi ad avere timore dell’immaginazione
perchè la consideriamo disordinata, o timore del dolore
perchè lo consideriamo troppo allagante, in questo senso
allargherei il concetto di accudimento per uscire da questa eterna
metafora della mamma e del bambino che trovo un pochino eccessiva
e troppo dilagante: ci sono anche adulti che parlano con adulti
e non soltanto mamme che parlano con bambini al mondo. In questo
senso il dolore e l’immaginazione mi sembra possano introdurre
una possibilità di accettare questa dipendenza e poi forse
sono anche gli elementi che mancano un po’ nella nostra società,
cioè l’accettazione del fatto che la dimensione tragica
della vita non è necessariamente un disastro. Certe volte
la dimensione tragica è quella che permette un’apertura
all’altro, che permette uno sviluppo di idee, di fantasie. Per
noi il terrore è tale che tutte le tragedie devono sempre
trasformarsi in commedie: mi sembra che questo andrebbe discusso
approfonditamente. Lo stesso vale per l’immaginazione: mi pare
che nella ricerca di semplificazioni sempre riduttive l’immaginazione
viene temuta come un elemento disturbato oppure come un lusso
che ogni tanto può essere divertente ma poi va lasciato
là. Mi sembra che invece bisognerebbe entare molto più
fortemente nel tessuto dei rapporti.
Vigorelli.
Condivido pienamente, anzi io direi che la dimensione dell’accudimento
del bisogno che purtroppo è quella prevalente nei programmi
dei Servizi può essere proprio un modo difensivo usato
per non riuscire ad accogliere l’aspetto del dolore. È
quello che in genere si fa di più: la casa, il lavoro,
la cura di sé, la pratiche riabilitative che poi diventano
estremamente meccaniche. Questa capacità di accogliere
il dolore presuppone da parte degli operatori un percorso, non
necessariamente un trattamento su di sé, ma un creare una
sensibilizzazione a questi aspetti, compresa la creatività,
anch’essa mortificata molto dalle linee guida. Può essere
una difesa addirittura come elemento che distanzia.