GRUPPO DI STUDIO PER IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

Antonello Correale

Il paziente borderline e la sua famiglia(*)

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     Il disturbo borderline sempre più si va configurando come un disturbo che deriva dall’esposizione di bambini o bambine ad ambienti altamente traumatizzanti, in cui il trauma non è necessariamente “il trauma”, cioè quell’evento che è successo una volta e da allora non ci possiamo più dimenticare, ma è un trauma ripetuto, cumulativo, costante, e che in qualche modo caratterizza la vita come una presenza disturbante fissa, una specie di struttura allarmante continuativa. Questa esposizione ad un allarme continuativo nelle figure più vicine, che dovrebbero assicurare una protezione dall’allarme e invece assicurano un allarme appunto, anziché una protezione dall’allarme, determina una specifica situazione che ormai è quella che gli psicologi cognitivisti, gli psicologi dell’attaccamento e anche gli studiosi di neuroscienze e una certa quota non piccola anche di psicoanalisti, convergono nell’idea che questa sia la radice della formazione di questo disturbo borderline. [1]

     Seconda cosa, la famiglia del paziente borderline molto spesso è una famiglia di persone che a loro volta sono state vittime di traumi infantili. Quindi in qualche modo si può dire che la crudeltà, l’ imprevedibilità, la violenza, l’esplosività che certi genitori tendono ad esercitare su certi figli sia l’espressione di un trauma, una catena generazionale tragica, per cui la vittima diventa persecutore. E questo getta una luce anche abbastanza importante sul fatto che certe situazioni sociali, certe guerre, certi scontri, certe carestie, certe epidemie, le pulizie etniche, i bombardamenti, le persecuzioni di dittature feroci e spietate come è avvenuto in Argentina, per esempio, sono cose che hanno conseguenze sulle generazioni future, non soltanto sulle generazioni attuali.

     In qualche modo ciò che succede a una generazione che ha il potere di indurre in quella generazione un traumatismo personale e collettivo può diventare veramente, come accennava prima il dott. Nosé, può diventare un trauma trasmesso per via transgenerazionale con delle modalità per cui, secondo la tragedia greca, i figli diventano dei drammi e delle tragedie dei genitori. Più che di una crudeltà dei genitori sui figli, io parlerei di una trasmissibilità inconscia drammatica e tragica di una cecità di alcune persone traumatizzate che scaricano ciecamente il loro trauma sulla generazioni successive, e quindi in qualche modo questo va fronteggiato come una emergenza che richiede un aiuto, sia alla generazione traumatizzante che a sua volta è stata traumatizzata, sia alla generazione successiva. Questo discorso sul trauma mi sembra che abbia una implicazione terapeutica significativa e importante, non resta un discorso teorico ma in qualche modo ci dà degli strumenti per intervenire. Più che altro non bisogna colpevolizzare esageratamente, non si tratta di non riconoscere la crudeltà che gira, ma si tratta di rendersi conto che molto spesso dietro la crudeltà c’è una cecità, e che la cecità a sua volta è la spaventosa legge umana per cui le vittime diventano persecutori.

     Ecco, questo a me sembra un aspetto molto, molto importante: chi ha subito un trauma spesso traumatizza gli altri. Questo è il tema con il quale vorrei dare un taglio, un’impronta al mio discorso.

     Due parole molto rapide: questa visione del disturbo borderline come un disturbo da traumi cumulativi ripetuti si va affermando sempre di più adesso sulla base delle ricerche sull’attaccamento e ormai moltissimi ricercatori, specialmente negli Stati Uniti e Inghilterra (c’è una bibliografia molto ampia in questo campo) tendono a dire che il disturbo borderline deriva da delle forme di attaccamento disorganizzato e disturbato e drammaticamente discontinuo tra la figura accudente e le figure accudite, e tra l’altro anche il trauma mi pare che è una tematica che è molto studiata ormai; c’è un Istituto per lo studio del trauma a New York che è diretto da un americano che è uno psicoanalista ed anche un neurofisiologo che si chiama Van der Kolk, e poi c’è un libro molto bello di un’americana, Judith Hermann, dell’Università di Harvard, che si chiama Trauma and Recovery [2] : sono tutti temi in cui sembra che la tematica traumatica viene sempre più collegata con un disturbo del carattere che si origina nelle prime fasi della vita e che in qualche modo tende a superare l’idea che il disturbo borderline sia basato soltanto su una sorta di rabbiosità originaria molto violenta di cui i borderline sarebbero portatori; c’è questa visione che ancora in qualche modo perdura con Kernberg, sulla scia anche del disturbo come era visto dalla Klein, per cui sembra che in qualche modo si abbia a che fare con dei pazienti che hanno una dotazione di rabbiosità eccessiva su base costituzionale. Ora quest’idea che ci siano certi pazienti invasati dalla rabbia che li porta a dividere il mondo in buoni e cattivi per difendersi dalla rabbia credo che sia in parte vera ma che questa rabbia a sua volta acquisti una luminosità, abbia una leggibilità molto maggiore se la vediamo inserita in una storia. Qui non si tratta di giustificare la crudeltà o la rabbia che questi pazienti molto spesso esercitano su chi sta intorno a loro, ma di inserirla in una vicenda storica.

     Molto spesso ricostruire vicende traumatiche con loro in un clima di sicurezza e di protettività permette un controllo sulle crisi rabbiose successive e controllare le relazioni rabbiose che ci sono nelle famiglie dei borderline accudendo e creando una buona relazione di sicurezza con il paziente borderline e con le sue figure di accudimento spesso e volentieri rompe queste relazioni imprigionanti, violente che attivano continuamente la ripetizione all’infinito della drammaticità e permette di prevedere comportamenti più controllati e meno distruttivi. Si potrebbe dire in un altro modo che curare un paziente borderline o una paziente borderline significa curare una relazione fra questo paziente e una figura o più figure familiari che sono intrappolate con lui o con lei in una relazione di odio-amore indistruttibile e molto vincolante in cui la famosissima battuta «né con te né senza di te» diventa la legge della vita: cioè non posso stare senza di te ma non posso neanche stare con te, e quindi questo rapporto violentissimo, distruttivo, conflittuale tra un bisogno rabbioso dell’altro diventa la matrice delle terapie. Cioè se si riesce a intervenire in questa relazione separando il trauma della figura genitoriale e il trauma della figura del figlio, in qualche modo creando due spazi distinti e offrendo delle possibilità di spaziosità in questa prigione in cui molto spesso i pazienti borderline sono imprigionati, questa situazione permette delle aperture. Anzi io vi consiglierei ai fini terapeutici di dire sempre quando siamo in presenza di un borderline: «quale è la relazione che la imprigiona? Dentro quale prigione è caduta questa persona, e dentro quale prigione tiene le persone che la tengono in prigione? », perché non c’è uno che tiene in prigione un altro, ci si tiene in prigione reciprocamente. Quindi questa mi sembra che potrebbe essere sul piano terapeutico una indicazione importante.

     Ora parleremo rapidamente del trauma, ripeto, consapevole come sono che si tratta di una teoria, ma di una teoria che ormai sta prendendo piede in modo molto solido, molto diffuso, che non disdegna di riconoscere una matrice costituzionale. Siamo in presenza di bambini e di bambine che hanno una bassissima tolleranza alla frustrazione e una altissima sensibilità agli attacchi, con la tendenza a reagire in modo impulsivo, su questo non c’è dubbio, ma si tratta quasi sempre di bambini e di bambine che provengono da situazioni altamente traumatizzanti.

     Ora parliamo del trauma. Il trauma è una tematica esplosiva.[3] Voi sapete che il concetto di trauma è discutibile, perché giustamente si può dire che per qualcuno è un trauma ciò che per qualcun altro non lo è, allora cosa designamo “trauma”: il papà che ti sgrida perché hai preso sei a scuola invece di otto è un trauma per un bambino e per un altro non lo è, non c’è dubbio, e lo stesso se dei genitori ti tirano qualcosa in testa questo può essere un trauma per un bambino e per un altro può non esserlo, su questo non c’è dubbio.

     Però altresì non c’è dubbio che non si possa limitare il concetto di trauma alla definizione di un evento eccezionale che interrompe la continuità e l’armoniosità della vita: è chiaro che un bombardamento, un terremoto, un lutto improvviso, un incidente stradale, una rapina a mano armata, uno stupro, sono tutti eventi che introducono un elemento di discontinuità spaventoso che va al di là delle normali coordinate in cui noi siamo inseriti. Però ripeto, si tratta di una determinazione eccezionale. Allora io credo, e su questo sono sostenuto da buona parte degli studiosi che ho citato, come ad es. Van der Kolk che dice: “ ma perché non studiamo il trauma e lo definiamo sulla base degli effetti che ha sulla persona, anziché il trauma in quanto tale?” Cioè trauma è tutto ciò che determina sulla mente un certo tipo di reazione. Allora si può dire che si può definire trauma sia un certo tipo di padre o di madre sia il terremoto che ti fa crollare la scuola sulla testa e ti fa morire tutti i compagni. E’ chiaro che non c’è la stessa relazione, però l’unità del concetto non deriva dall’evento ma dall’effetto che l’evento ha sulla persona che lo subisce. Allora si può dire: qual è questo effetto? Sostanzialmente sono due gli effetti che possono definire il concetto di trauma:

     1) trauma è qualunque evento che determini una discontinuità nella capacità rappresentativa della mente: cioè il cervello sottoposto a quel tipo di esperienza cessa la sua capacità di produrre immagini, pensieri, associazioni e si localizza su un frammento dell’esperienza o sull’unica emozione, protettiva, rabbiosa, irritante, o quello che è, ma che ha lo scopo di proteggere dall’evento. E’ come se di fronte a certi eventi la nostra mente si preoccupasse esclusivamente di proteggersi e questa protezione avvenisse a spese delle capacità di capirmi. Il trauma è ciò che determina una interruzione nella capacità di comprendere, perché tutto l’organismo e tutta la mente si organizza attorno alla capacità di proteggersi da ciò che succede; questo è un modo che la Herman descrive con la metafora dell’esplosione, cioè il trauma è un’esplosione. Se io apro la porta di una stanza e in quel momento scoppia una bomba in quella stanza, c’è un’esplosione, quello che io vedo in quel momento sono frammenti, luce, dolore, botto, magari una finestra che sbatte… ma non è che colgo una integrità dell’evento, ma colgo una somma di frammenti esplosi, e ricorderò in quel momento che sono stato in una stanza e non ho più capito niente, non ricordo, non so raccontare che cosa è successo, la realtà diventa una serie di frammenti esplosivi, dirompenti, rabbiosi, emozionalmente molto carichi ma privi di una loro coerenza rappresentativa. D’altra parte si è visto anche negli studi di neuroscienze che ci sono dei dati molto interessanti che dicono che il trauma tende, proprio anche da un punto di vista elettroencefalografico, a far fuori le attività corticali e a lasciare intatte le attività limbiche e ipotalamiche, cioè in altre parole è come se l’organismo dicesse: «di fronte a questa cosa non hai bisogno del pensiero, anzi il pensiero ti ostacola, hai bisogno soltanto di salvarti».[4] Infatti Bion, se ricordate, diceva: «Chi è il buon capo?» (Bion usava la metafora militare) Il buon capo è colui che nei momenti del pericolo riesce a mantenere una capacità di pensare, perché normalmente nei momenti di pericolo grave i soldati scappano o attaccano ciecamente. Il capo è quella persona che di fronte al trauma riesce a mantenere una certa attività di pensiero. Questa è una tematica interessante che permette di introdurre un elemento di varietà nella reazione degli esseri umani di fronte a questo tipo di emergenza.

     2) l’altra cosa che si può definire come descrizione dell’attività traumatica è la coazione a ripetere. Pensate che van der Kolk dice che trauma è tutto ciò che tende a determinare una tendenza a ritornare sul già avvenuto e a ripeterlo, cioè trauma è ciò che tende a creare un’attrazione ripetitiva su quell’evento. Lui aggiunge che questo è uno dei più grandi misteri della mente umana, perché credo che nessuno sia sicuro di poter dire perché succede questo. Voi ricordate che Freud, in Al di là del principio del piacere, parlando delle nevrosi di guerra, si chiede come mai questi soldati tendano a ritornare sempre sulle loro esperienze traumatiche, continuamente ripensano a quel momento: «io pensavo - dice Freud - che la cosa più importante nella vita fosse la ricerca del piacere e invece sembra che questi soldati vadano continuamente alla ricerca del dolore». Perché devo tornare lì, perché c’è questa invasività del pensiero e del trauma che continuamente attira non solo a ricordare il trauma ma a ricreare le condizioni per cui il trauma possa riverificarsi, per cui molto spesso un ragazzo che sia stato picchiato diventerà violento, una ragazza che sia stata violentata tenderà a ripetere delle circostanze che la portino ad essere nuovamente abusata, non sempre, ma si ripresenta di frequente, soprattutto nel disturbo borderline, questa tendenza a ripercorrere drammaticamente la necessità di riattraversare il trauma subito. Ora, se ricordate, Freud diceva che questo avviene come un tentativo di padroneggiare il trauma, come se ritornandoci sopra, ritornando l’assassino sul luogo del delitto, io mi facessi l’idea che ogni volta questa cosa non mi sconvolge ma la controllo. E’ una spiegazione molto interessante, ma non so se sia vera. Ad esempio, una ragazza riferiva (l’ho letto in un libro)[5]: «dopo essere stata violentata io tendo sempre ad andare nelle strade più pericolose dove posso fare brutti incontri, io lo so che è così, io lo so che faccio male, ma è più forte di me, io non gliela voglio dare vinta». Frase molto oscura: cosa vuol dire non gliela voglio dare vinta? «Questo trauma io lo voglio riattraversare, perché in qualche modo io sento che se lo rivivo, io non sono morta per quel trauma, ma continuo ad essere viva di fronte a quel trauma». E’ un aspetto molto drammatico e molto difficile da capire, ma se noi ci rendiamo conto di quanto è forte nel disturbo borderline la tendenza non ad evitare i traumi subiti ma a ricercarli perché in qualche modo ritornare sul trauma significa fare l’esperienza che questo trauma non ci ha ucciso, ma per sentire che non ci ha ucciso lo dobbiamo riattraversare, allora possiamo comprendere meglio questa coazione a ripetere. Ecco, è molto drammatica questa cosa, molto triste.

         Ad esempio io ho passato intere psicoterapie con giovani uomini e donne borderline che continuamente mi riproponevano la tendenza a riattraversare rapporti sadomasochistici, a riinnamorarsi di persone sbagliate, a farsi trattar male da persone violente, e sebbene si rendessero conto che questa cosa era sbagliata dicevano che era più forte di loro, uno lo fa come una ricerca di stimoli, uno come ricerca dell’avventura, però in qualche modo c’è sempre la necessità di rivedere cosa mi succede se ci riprovo.

         Ora io penso che questa tendenza a ripetere il trauma è molto drammatica ma è anche molto utile sul piano terapeutico, perché quando noi si riesce, nel corso di un lavoro psicoterapico, psichiatrico o comunque all’interno di una relazione terapeutica a far vedere al paziente quanto questa ripetizione fa parte della sua modalità patologica di ritornare sempre sul luogo di un evento antico, di una serie di eventi antichi che l’ha danneggiato, questo aiuta la persona a prevedere i suoi comportamenti, cioè dopo dieci, venti volte che una persona ha messo in atto i suoi comportamenti ripetitivi, ha ripreso l’amfetamina, ha attraversato di notte un quartiere malfamato, mi sono fatta rimorchiare da quell’uomo violento che poi la mattina dopo mi ha picchiata, ho attaccato briga col vigile urbano sapendo benissimo che sarei stato denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale, «ma in quel momento non potevo fare diversamente – dice – dottore, era più forte di me», oppure, «non ero io in quel momento, non so cosa mi è successo»…. allora questo ritornare su qualcosa secondo delle modalità automatiche, delle modalità ripetitive, delle modalità che in qualche modo pur essendo profondamente disadattative vengono continuamente ricercate, sembrano essere delle modalità che dopo che si sono ripetute 10, 20 volte, la persona può essere aiutata dal proprio medico, dal proprio psicoterapeuta che alla fine gli dice: «ma allora, come la vogliamo mettere questa cosa, cosa cerca lei in quei momenti in cui fa così?». «Mah, non lo so, mi scatta un click dentro la testa e non posso fare altro che così». Poi si scopre molto spesso che all’origine di questa cosa c’era stato un trauma attuale che l’aveva scatenata, un litigio con la madre, un litigio con il padre, un parziale abbandono, una frase detta male, una seduta saltata, che aveva riattivato la fantasia di essere abbandonati e spesso maltrattati ed era scattato sul trauma attuale la fantasia della ripetizione del trauma antico. Allora di fronte ad un trauma attuale, parziale, è come se si mettesse in moto la fantasia di ripercorrere l’antico trauma con tutti i modi che abbiamo messo in scena per superarlo, insomma la ripetizione di una serie di comportamenti postraumatici che però includono in qualche modo la fantasia di controllare il trauma o in qualche modo di sentirsi vivi dentro il trauma.

     Per chiarire meglio questo punto vorrei tornare al discorso della mancanza di senso. Io credo che certi traumi introducono con forza il tema della morte, ma con morte io non intendo la cessazione della vita, che quella, tutto sommato, è meno spaventosa di quello che si pensa, ma quello che è veramente terribile è la morte intesa come entrata in un mondo in cui le cose non sono più dotate di vita, non sono più dotate di un senso, di una loro legge, che poi è la legge che siamo degli esseri umani e quindi in qualche modo la solidarietà, la tenerezza, l’affetto, l’amore prenderanno il sopravvento, ma che siamo in un mondo in cui ci sono soltanto sassi, schegge, pioggia, grandine,… ecco, questa è la morte secondo il paziente borderline, un mondo in cui momentaneamente c’è una rottura delle leggi naturali che indicano che tra gli esseri umani è possibile un elemento di solidarietà. Allora la morte è: “gli esseri umani non sono più esseri umani ma diventano per un attimo forze della natura” e a questo punto allora questo è un senso di morte, fatemelo dire con la famosa frase di Machbeth che dice: «La vita è la storia raccontata da un idiota piena di frastuono e di rumore che non significa nulla». Questa frase mi sembra che potrebbe andar bene per il borderline in quei momenti. Però c’è anche da dire che quei momenti possono anche essere superati con facilità, che in qualche modo passato il momento del disorientamento e della morte, se la persona si riattacca ad una figura che gli dà un senso di continuità, di protezione, di sicurezza, ci vorranno sei ore, qualche volta un giorno o due, o certe volte ci vuole un bel ricovero, ma molto spesso è come se lentamente il polverone terribile si ri-sedimentasse e la persona ritrovasse, diciamo, dietro questa morte vuota un senso invece di un certo calore delle cose. Ma è molto importante che la persona senta che può ricostituire una relazione, un rapporto, e che questo rapporto gli assicura il fatto che anche se tu mi attaccato perché tu sei stato violento, ti ho tenuto fermo con le mani, ti ho insultato per risvegliarti dallo stato in cui ti trovavi, ti ho fatto il TSO e ti ho portato in ospedale perché stavi diventando pazzo, io comunque ero là e su di me puoi contare perché io non scompaio. Questa mi sembra la cosa più importante, forse anche più importante della amorevolezza e della tenerezza che spesso suscita una certa perplessità e una certa diffidenza nel borderline. Quello che veramente è importante per il borderline è la continuità, bisogna assolutamente evitare la legge del taglione. Mai vendicarsi, magari insultarli, trattarli male, bloccarli, se necessario impedirgli di fare le cose anche fisicamente ma mai lasciarli, far sentire loro che noi ci siamo sempre: «io ti faccio questo ma ci sono». Questo aspetto riconduce questo elemento di logica.

     Il trauma che introduce questo elemento di discontinuità mortale e di perdita di senso, può essere invece ricostruito attraverso una relazione che gli trasmette un senso di sicurezza, che ci mette tanto tempo per formarsi, ma che lentamente prende il posto del trauma distruttivo e violento che sta alla base dell’origine del disturbo.[6]

         Quali sono gli effetti più importanti del traumatismo? Intanto, sicuramente, c’è la triade famosa che è l’ipereccitamento (iperarousal), la dissociazione e la coazione a ripetere. Cominciamo dall’ipereccitamento. L’iperarousal ( a me piace questa espressione anche se è un pochino tecnologica perché sta ad indicare un atteggiamento di tipo elettrofisiologico) è una specie di allarme fisso, una specie di attenzione stabilmente fissa su che cosa mi può succedere, è come se il paziente borderline fosse sempre dell’idea che comunque sia, dietro alla faccia più gentile, dietro l’espressione più affettuosa ci può essere sempre la zampata, il graffio, il colpo, il pugno, l’offesa; sono persone che sono perennemente in uno stato d’allarme. Se voi avete esperienza di terapie con pazienti borderline, io credo che controtransferalmente l’aspetto più drammatico sia l’enorme fatica, ci si stanca a morte, almeno io mi stanco a morte e provo un’enorme fatica e direi che è difficile che io abbia una seduta con un paziente borderline durante la quale non ci sia in una parte del mio cervello la speranza che non venga; poi è chiaro invece che spero che venga però, istintivamente, mi vorrei risparmiare questa fatica. Spesso mi sono chiesto perché c’è questa fatica, e io credo che questa fatica ci sia perché con il paziente borderline noi siamo sempre come sotto un riflettore che ci guarda con una luce spietata, come se fossimo sotto un interrogatorio di quarto grado, ci guarda e ci guarda e ci guarda per vedere adesso cosa mi dirai, perché, appunto, questo paziente è talmente abituato all’idea che verrà tradito un giorno, che ci mette continuamente alla prova per vedere se le cose che facciamo, che diciamo, i nostri gesti, le nostre proposte, i nostri consigli sono in qualche modo coerenti con l’assunto che noi siamo lì per curarlo e quindi per proteggerlo e per proteggerla e per assicurargli una continuità. Infatti Freud da qualche parte diceva che si era seduto dietro il lettino perché non sopportava di essere guardato dal paziente.[7] Io credo che col paziente borderline questa cosa è aumentata al massimo grado, noi dobbiamo accettare che i pazienti borderline ci guardano in modo spietato, non solo, ma loro ci pongono anche questo problema. Ci dicono: «Quando tu parli, parli da medico, parli da professore, parli da primario, parli da assistente sociale, parli da infermiere, o parli anche perché dietro questo tuo ruolo c’è anche una persona che sa di cosa si sta parlando? Ecco, perché se tu parli soltanto come ruolo, io dopo un po’ ti mando a quel paese e non ci si vede più». Di fatto, è come se loro avessero una fame violenta di autenticità, loro vogliono una specie di autenticità violenta ma la vogliono in modo violento, mentre noi vogliamo essere autentici con le persone che vogliamo noi, non è che andiamo in giro dicendo sono autentico con tutti. Poi c’è chi è più portato ad essere autentico e chi è meno portato. L’autenticità è un grande bisogno che noi abbiamo ma l’autenticità è anche una fatica perché ci espone, ci mette nella condizione di dover approfondire un rapporto, ma noi non abbiamo sempre voglia di approfondire i rapporti, perlomeno non con tutti, ma semmai con chi vogliamo noi. Invece con il borderline non è così. E’ come se lui ci dicesse: «Mah, dottore, mi faccia un po’ vedere, ma in quelle vene che io vedo dietro la sua fronte scorre del sangue o scorre qualche altra cosa?», perché loro vogliono vedere in che cosa consiste la nostra umanità, perché questo li rassicura su un fatto: se noi apparteniamo alla categoria degli oggetti allarmanti e traditori oppure no. Ripeto, io questo lo trovo estremamente faticoso, faticosissimo, perché ci impone un monitoraggio continuo di quello che diciamo, ci impone una tendenza a trattare questi pazienti come un oggetto un po’ emofilico…basta un colpo e viene l’emartro e poi ci vogliono quindici giorni perché l’ematoma guarisca, per cui l’emofilico si muove con difficoltà, perché ha terrore di avere quegli urti che la persona normale invece si permette tranquillamente. Col borderline questi piccoli urti diventano delle emorragie spaventose procurate da me che ti ho dato solo un piccolo urto ma che in te diventa poi una emorragia spaventosa.

         Allora questa cosa costringe il terapeuta ad una attenzione e a una vigilanza molto faticosa e allora in questo caso l’essere anche molto sinceri, l’abbandonare la neutralità terapeutica, la modalità analitica di starsene lì zitti e buoni ad aspettare che il paziente associ, essere un po’ più attivi, fare qualche domanda, esporre anche di più un aspetto emozionale di se stessi, ma non nel senso di raccontare le proprie cose, ma di parlare un linguaggio sufficientemente caldo, sensoriale, non troppo astratto, dire per esempio “triste” invece che depresso, “arrabbiato” invece che aggressivo, “disperato” invece di malinconico, usare quindi delle parole che veicolino un senso di presenza, di sensorialità, di pienezza, di partecipazione, non delle parole troppo astratte.

         Questo dovrebbe però essere al servizio della tendenza a ricostruire in che modo i traumi della vita attuale sono delle ripetizioni dei traumi della vita antica. Questo per quanto riguarda l’ipereccitabilità. Un aspetto però drammatico di questa ipereccitabilità consiste nel fatto che queste persone hanno la tendenza ad avere dei litigi violentissimi con persone della loro famiglia, litigi duranti i quali loro sono del tutto automatizzati. Questo succede molto spesso in quelle coppie le quali hanno la tendenza a fare sempre gli stessi litigi, madre e figlia, padre e figlia, marito e moglie, nonno e nipote. Ci sono alcune famiglie in cui si ha la sensazione che le persone non si annoino mai di litigare sempre sulle stesse cose. «Tu sei troppo distratto, sei troppo puntiglioso…» e si continua così per una vita intera. Non si riesce ad accettare l’idea che uno possa essere un po’ distratto e l’altro puntiglioso, ci si può mettere un po’ d’accordo su questa cosa, ci possiamo correggere un po’. E invece no. Questa modalità di ripetizione all’infinito del litigio può essere vista, come fanno i kleiniani, con il fatto che noi abbiamo bisogno dell’altro per evacuare le nostre parti negative, e allora l’altro diventa il ricettacolo di tutto ciò che noi non vogliamo essere, ma noi abbiamo bisogno dell’altro per usarlo come una specie di luogo da evacuare. «Se mi togli mia moglie da maltrattare non so più dove mettere le mie parti negative». Questa è la classica spiegazione kleiniana.

     La vicinanza intesa come offerta di un ricettacolo di negatività, «ti amo perché tu mi consenti di farmi da bidone della spazzatura, se non ci fossi tu che mi fai da bidone dove metterei tutte le mie cose negative?» Questa è la spiegazione kleiniana. Però io credo che questa spiegazione, che è vera in certi casi, però non rende giustizia del fatto che molte coppie, non solo coniugali, ma genitori e figli, invece, tendono a ripercorrere questa strada in una modalità parzialmente alterata di coscienza ed è come se in quei momenti il litigio mettesse in moto una modalità quasi automatica di funzionamento: litighiamo perché non possiamo non litigare. Non è come se si entrasse in una specie di “trance” perché questo sarebbe eccessivo, è una specie di ruota dentata, si va avanti così perché non si può fare a meno di fare questo. Ci sono dei pazienti borderline che riferiscono dei litigi in casa che hanno tutti, ma tutti, lo stesso identico decorso, cominciano in un certo modo, proseguono altrettanto allo stesso modo e finiscono in un certo modo, sempre, e la cosa incredibile è che ogni volta la persona viene poi da me a dirmi: «Sa, ho litigato con mia madre» e aggiunge «è la prima volta che litigo con mia madre» e quando gli facciamo notare che lui ha litigato ottanta volte con sua madre da quando l’ho conosciuto, dice «si, ma questa volta era una volta particolare». Allora vuol dire che questi litigi sono dotati di una ipereccitabilità, ma al tempo stesso di una perdita parziale della memoria per cui avviene che ogni volta il litigio è come se si verificasse per la prima volta.[8]

     Allora, sulla scorta di altri colleghi, ad es, un australiano, Meares, che ha scritto un libro molto bello che vi consiglio di leggere e che si intitola Intimità e alienazione,[9] lui dice che questi litigi si possono vedere come momenti di parziale alterazione della coscienza, nel senso che le persone sono come trascinate, c’è un calo dell’attenzione e una diminuzione della memoria per cui le persone sono come trascinate nel meccanismo di personificare dei personaggi e portano il loro litigio fino alle estreme conseguenze e all’esaurimento di questa gamma di personaggi. Allora, questo recitare questa parte fa parte dell’ipereccitabilità. E’un sintomo patognomonico del disturbo borderline questa tendenza a ripetere all’infinito delle modalità di rabbiosità per cui uno si sente caduto nel ruolo di vittima e l’altro di persecutore, e questa cosa la si manda avanti per molto tempo. Passata la rabbia, la persona dice: «ma come è possibile che io abbia fatto questa cosa, mi vergogno di essermi comportato in questo modo! In quei momenti non sono più me stesso», e poi ci ritorna di nuovo e lo fa allo stesso modo, e nel momento in cui ci ritorna non si pone il problema se è se stesso o no, lo fa e basta.

     In quei momenti c’è un crollo delle funzioni di autoosservazione e la capacità di autoosservazione si riduce al punto tale che la persona si regola secondo delle modalità automatiche. Allora io direi che questa è una modalità post-traumatica che sta ad indicare che c’è una ipereccitabilità, che questa ipereccitabilità allarmata dà origine a delle modalità automatiche di comportamento aggressivo che in qualche modo rappresenta una ripetizione all’infinito di schemi comportamentali postraumatici che hanno lo scopo di creare attorno al trauma originario una modalità reattiva che ne permetta in qualche modo la fuoriuscita, però a prezzo di stare dentro una prigione da cui non ci si può liberare.

       L’altro meccanismo è il meccanismo più legato alla dissociazione.[10] Questo è un tema antichissimo di psichiatria, è inutile citare Pierre Janet e anche il primo Freud che, negli Studi sull’isteria scritti in collaborazione con Breuer, molto affascinanti, diceva che il trauma determina una doppia coscienza. Perfino Orwell, l’autore del libro 1984, diceva che il trauma determina un double think, un doppio pensiero; cioè la persona che va incontro al trauma può dissociarsi, cioè in qualche modo diventa due persone, una che risponde adeguatamente alle cose che succedono, un’altra che sta recitando una parte. Cioè il trauma tende a determinare dei nuclei di coscienza scissa che in qualche modo si incistano e vengono fuori in momenti particolari, quando il trauma si riattiva. Per esempio, la famosa Anna O., che aveva dovuto assistere il padre ammalato per molti anni era convinta di essere una figlia molto dedita e lo era perché si era sacrificata per il padre per anni e anni, però tutta la quota di aggressività e di ingiustizia («perché mai la mia vita di giovane ragazza deve diventare una prigionia per assistere un vecchio malato cui pure voglio tanto bene») era rimasta separata, scissa. Allora questa doppiezza diventa: io non sono una persona sono due persone, sono quella che assiste il papà amorevolmente e in certi altri momenti sono un diavolo che non si sa bene che cosa vuole fare, ma che però non si riconosce nella prima figura. Però la cosa interessante è che non si tratta di un conflitto del tipo: «accidenti, io voglio tanto bene a mio padre, però, che strazio quest’assistenza!», come farebbe una persona sana che riconoscerebbe il conflitto e si renderebbe conto nello stesso tempo quanto è doloroso doversi occupare di una persona cara malata invece che andare a spasso col fidanzato. Invece quello determina una dissociazione, cioè le due cose si separano: in certi momenti sono tutta brava figlia, in altri momenti sono tutta un’altra persona. Allora dissociazione è la creazione di uno stato di doppio funzionamento che in qualche modo non si ricollega ad un’unità e che è la matrice di comportamenti isterici più o meno importante, cioè in alcuni momenti questi pazienti diventano più nettamente isterici e recitano la parte di alcuni personaggi e in quei momenti si ha la sensazione di non avere a che fare con la persona che conosciamo ma con un’altra persona che viene fuori in certi momenti.

     Ancora una volta, però, se invece di vedere questo come una forma di crudeltà, di malvagità o una forma di identità scissa, la vediamo come un esito di una presenza traumatica, allora l’attività terapeutica non consiste nel giustificare eventuali aggressività che nascono in quei momenti ma nel ricondurle alla loro origine. «Tu hai avuto un doppio stato di coscienza dopo che ti è successa questa cosa. Dopo che il tuo fidanzato non ti ha telefonato quella sera o ti ha detto quella frase così, tu non sei stata più la stessa. Cioè c’è un collegamento, c’è un evento, non è che tu improvvisamente hai tirato fuori questa cosa, ma tu stai reagendo a questo evento in questo modo». Quando noi colleghiamo venti volte una certa reazione con un certo evento la persona si impadronisce di questa conoscenza. Per esempio mi posso immaginare che ogni volta che ci sarà una determinata cosa durante la seduta io reagirò comportandomi con quella modalità oppure farò finta che non me ne importi niente però darò adito a comportamenti sessuali promiscui, oppure litigherò con mia madre anche se in quel momento non c’era nessun motivo per litigare. Allora questo ricondurre la vicenda sintomatica alla vicenda traumatica attuale e a sua volta il ricondurre tutto alla vicenda traumatica antica, ci può aiutare.

     L’ultima cosa l’ho già detta prima, è il discorso della coazione a ripetere. Mi pare che gli elementi più importanti sono 1) che la persona tende a riproporre l’evento traumatico anche con modalità invertite: posso essere io a infliggere un trauma anziché essere quello a cui viene inflitto, ci può essere cioè un gioco delle parti, attraverso il meccanismo dell’identificazione con l’aggressore. Questo è un punto molto importante; il meccanismo dell’identificazione con l’aggressore è una delle modalità più significative di uscita dal trauma, perché non c’è dubbio che in qualche modo il trauma eserciti anche un indubbio fascino di potere (si veda ad esempio la “sindrome di Stoccolma” o altri esempi). Sono dati molto drammatici, perché la persona che viene sequestrata, che viene sottomessa ad una prigionia, che viene messa nelle condizioni di essere totalmente in balia di un’altra persona, molto spesso sviluppa nei confronti della persona che l’ha messa in questa condizione una forma di dipendenza sottomissiva. Perché noi ci aspettiamo, essendo completamente soli in balia del nostro persecutore, che l’unica persona che ci possa salvare è la stessa persona che in quel momento ci sta uccidendo. Pensate a un bambino che si trova nelle mani di una persona che in quel momento non capisce niente perché è accecata dall’ira; il bambino non potrà soltanto ribellarsi, ma dovrà ribellarsi e nello stesso tempo sforzarsi di indurre in tutti i modi nella persona che lo sta maltrattando un atteggiamento amorevole, per esempio promettendogli di star buono o promettendogli di non farlo arrabbiare «perché forse ti ho fatto arrabbiare», dicendogli «non ti arrabbiare, mammina, papà, nonnino, fratellino, sorellina.» C’è quindi un aspetto molto drammatico che non può mai essere trascurato del tutto perché l’idea che chi ci maltratta determina in noi rabbia e ribellione è una idea molto semplice ma non sempre vera, perché chi ci maltratta determina in noi rabbia e ribellione unita a una sottomissione drammaticamente tragica e alternata alla rabbia, per cui ne viene fuori questa tremenda complicazione che chi viene maltrattato tende a riproporre il maltrattamento o nella figura del maltrattato o nella figura del maltrattante. Se poi chi viene maltrattato ha una capacità di raffreddamento molto forte dei propri sentimenti, e una capacità fredda di utilizzare la mente per gestire la situazione in modo da salvarsi, è molto probabile che il maltrattamento dia adito ad un disturbo antisociale di personalità.

     Il borderline in qualche modo è una persona nella quale la stessa emozionalità, quello che prova, lo rende più umano in qualche modo, anche più soggetto alle leggi dei rapporti umani; l’antisociale è colui o colei il quale fa proprio un patto col diavolo, vale a dire io non mi emoziono più, io decido che l’unico modo per reggere ai maltrattamenti è di “studiare da maltrattante io”, e lo farò, con tutta la freddezza che mi è necessaria e mi è possibile.

     Per esempio un tema di studio molto interessante è: quali sono i borderline che diventano antisociali e quali sono i borderline che rimangono borderline?[11] Quali sono i momenti della vita in cui si divarica questa storia? Questo direi per tutto quello che riguarda la tematica del trauma.

     Io credo che però il trauma di cui si parla in queste famiglie è un trauma di carattere cumulativo e ripetitivo, qui molto spesso si ha a che fare con traumi che non sono così leggibili. Io su questo vi inviterei a rileggere un testo molto drammatico e molto interessante che è la Lettera al padre di Franz Kafka[12], che sicuramente molti di voi avranno letto, che è un testo veramente un po’ straziante perché si sente in Kafka tutto il dramma di un figlio (Kafka non era un borderline ma ci può aiutare a capire che cosa significa trauma cumulativo) perché si sente in questo testo tutto il dramma di un figlio che è sinceramente attaccato al padre ma al tempo stesso ne ha una paura spaventosa. Lui dice: «Caro papà, io non ho mai provato un solo momento della mia vita in cui tu non mi facessi paura; poi io riconosco che tu eri bravo, che tu mi volevi bene, che tu ti aspettavi da me grandi cose, che tu mi hai regalato beni, speranze, mi hai pagato gli studi, hai parlato bene di me con gli amici; ma non è questo, non è il voler bene in discussione, ma tu mi facevi paura, e mi facevi paura per come eri, eri fatto in un modo che mi facevi paura; c’era nel tuo modo di parlare, nel tuo modo di esprimerti, nel tuo modo di gesticolare, nel tuo modo di affermare le tue idee c’era qualcosa che a me, piccolo bambino un po’spaurito, sognatore, portato a scrivere poesie di notte perché non dormivo, con i miei problemi polmonari in arrivo e le questioni psicosomatiche, con i miei problemi con le donne…., ebbene, questa tua vitalità, questa tua forza, questa convinzione che la vita è così e così ed è soltanto così e basta, tutto questo a me faceva paura, tu mi facevi paura». Kafka poi aveva delle tali capacità creative che questa paura l’ha trasformata in quelle cose meravigliose e anche un po’ terrificanti che sono i suoi racconti, i suoi romanzi e i suoi libri. Ma cerchiamo di immaginare una situazione in cui senza arrivare ai traumi conclamati, quelli sociologici, che pure credo siano statisticamente molto alti, arrivino al 30-40%, che sono genitori alcoolisti, genitori violentatori, incesto, disturbi antisociali, violenza, stupri, gravi lutti e lunghe permanenze lontano da casa, malattie fisiche di padre e madre, fughe e allontanamenti da casa, cioè situazioni che si configurano come un trauma anche nel senso tradizionale della parola, cioè eventi che eccedono la normale quotidianità della vita e producono un elemento di anormalità discontinua. Ma anche senza arrivare a questi traumi, possiamo immaginare che esistono delle situazioni di rapporto con delle figure familiari che a loro volta sono capaci di determinare un trauma in quanto esiste una capacità di certi genitori di indurre in modo del tutto non voluto nel figlio delle emozioni che accecano la capacità rappresentativa del figlio stesso. Per esempio Liotti, che è un cognitivista, si spinge fino a dire che addirittura la depressione materna può funzionare come un traumatismo nel senso che il bambino, vedendo la madre sempre perduta in fantasticherie tra il rabbioso e il malinconico perché ad esempio il marito la tradisce, il bambino che è sempre alle prese con una madre non reattiva risponde con aggressività, irritabilità, allarme.[13] Io credo che si possa dire che comunque, anche se ci vorranno molti studi ancora, esistono delle reazioni genitoriali, delle modalità tra genitori e figli, di attivazione di emozioni così forti che sono molto spesso molto maggiori di quanto noi pensiamo e che possono mettere un bambino nella condizione di non capire nulla del perché un genitore si comporta in questo modo. «Ma perché mio padre fa così?». Questo, ripeto, è un tema molto drammatico perché io non credo che ce la possiamo cavare dicendo semplicemente: i genitori sono cattivi, punto e basta. Ci sono le madri violente, ci sono i genitori violenti, quello è una testa di cavolo, quello è un criminale, quello è un incestuoso… Sì, ho capito, ma in qualche modo tutto questo introduce un elemento più enigmatico perché questi genitori così violenti sono poi anche in qualche modo dei genitori che ai figli ci tengono, che soffrono per loro, che chiedono aiuto, che sono discontinui, che piangono quando il figlio sta male, che mettono in discussione le cure ma mettono in discussione anche se stessi, che spesso chiedono di essere curati loro ….Non è così facile dire: ci sono dei genitori cattivi, ci sono dei figli maltrattati, allora facciamo l’Associazione per il bambino maltrattato e non ci pensiamo più. No, non è così, è più complicato. E’ chiaro che bisogna proteggere i bambini dai maltrattamenti. Ma questi genitori sono dei genitori che a loro volta sono catturati in un gioco violento molto drammatico, molto tragico, di cui loro sono al tempo stesso esecutori ma anche in una certa misura trascinati in questo gioco. Questo non toglie ovviamente nulla alla violenza di questi genitori e al fatto che molto spesso questi genitori vadano addirittura allontanati, anzi lasciatemi dire un attimo che una delle difficoltà più grosse consiste proprio nel capire quando questi borderline vadano allontanati da casa oppure no, perché molto spesso la crudeltà di questi genitori raggiunge dei livelli per cui genitori e figli non possono stare insieme, mentre altre volte questa stessa crudeltà può essere ricondotta a delle situazioni gestibili. Non è facile fare questa diagnosi.

     Importante è cercare di cogliere in quel genitore quant’è ancora la quota di dolore presente su cui si possa fare leva per creare un’area di solidarietà iniziale col terapeuta e col figlio. Io credo che questi genitori vadano trattati come delle persone che non hanno riconosciuto delle quote dolorose e traumatiche in loro stessi. Allora, se noi riusciamo a fargli riconoscere in una certa misura queste quote, ma probabilmente questo va fatto non giustificando i comportamenti di maltrattamento, ma all’interno di una situazione molto complessa in cui il figlio va tutelato, però io ho visto che c’è una certa prognosi positiva, fatemelo dire in questo modo un pochino romantico, quando il genitore piange. Finalmente dice, «dottore mi aiuti un pochino lei perché io non so se faccio bene o faccio male». Ecco, quando c’è questo dolore io credo che si può immaginare che ci si può avvicinare a questi genitori non solo come a delle Erinni, perché dietro a tutti quei serpenti che questi genitori-erinni hanno in testa c’è un dolore che tu hai trasformato in una clava con cui tu ammazzi il mondo. Allora questo dolore che tu hai trasformato in una clava con cui tu ammazzi il mondo che fine ha fatto? in che parte di te è finito questo dolore? E’ completamente abolito, non c’è più la minima traccia di questo dolore? oppure un pochino di questo dolore insieme riusciamo a farlo saltar fuori? Io sono convinto che l’”errore palese” di cui parlava prima Nosè è una smagliatura, una mancanza, un vuoto, qualcosa che non torna, un punto in cui un discorso filato non è più filato, un punto in cui c’è un buco, c’è una discontinuità, allora, in fondo è possibile immaginare che se noi mettiamo questi genitori e questi figli non soltanto a contatto con chi vince e con chi perde in questo gioco di morte spaventoso, ma in contatto invece con il fatto che la rabbia può contattare questa sofferenza e che questa sofferenza nel momento in cui diventa rabbia viene rinnegata come sofferenza e allora diventa ingestibile, e la rabbia va gestita come rabbia, non si può dire poverino…

     In qualche modo questa sofferenza, questa smagliatura, questo vuoto, questa mancanza è un primo punto per riconoscere un processo alternativo alla rabbia stessa. Detto in altre parole: se riconosciamo che alla base dello sviluppo dell’essere umano c’è l’idea che ci manchi qualcosa, in fondo, scusate, vorrei citare il Simposio di Platone ove lui dice: «Noi parliamo dell’amore dicendo che l’amore è bellissimo, ma perché noi siamo sempre abituati a guardare l’amato, e non l’amante, allora l’amato è bellissimo, è stupendo, è meraviglioso, una donna stupenda, un uomo affascinante; ma guardiamo l’amante; l’amante è un signore un po’ calvo, un po’ gobbo, un po’ zoppetto il quale manca sempre di qualcosa e cerca nella bellezza dell’amato il completamento di ciò che non ha». Allora questa idea che l’amore nasce da una mancanza mi sembra un’idea molto ricca anche sul piano terapeutico, cioè è possibile aiutare queste persone a rompere questo muro narcisistico, questa corazza che si mettono intorno perché loro hanno sempre ragione e dire loro: «guardi che nel problema di suo figlio forse c’è anche il fatto che lei stesso ha fatto una vita così difficile, suo figlio lei l’ha vissuto come un problema spaventoso, non l’ha vissuto soltanto come una gioia che Dio le ha mandato, ma come un problema terrificante. L’ha sempre fatta soffrire la sua paura di non essere capace». Allora, questa mancanza di qualcosa può in qualche modo mettere in moto anche un processo di sviluppo, cioè la mancanza, il vuoto, il dolore (scusatemi se faccio delle dichiarazioni troppo solenni) apre all’amore. Non è possibile amare se non si riconosce una mancanza in se stessi.

     Allora se l’amore è il riconoscimento di una mancanza si può aprire dei varchi dentro questi genitori e far vedere loro come stanno trasformando una mancanza in controllo, in rigidità, in un’armatura incrollabile d’acciaio inossidabile invece di trasformarla in una disponibilità un pochino più affettiva. Ecco, questo io credo che sia il taglio che si può dare a questo lavoro con questi genitori e che può dare dei risultati e che ci permette anche, lasciatemelo dire, di “affettivizzare” un po’ questi genitori, altrimenti c’è il rischio che noi vediamo questi genitori soltanto come dei mostri, anche se spesso lo sono o lo sembrano, però molto spesso dietro ci sono questi vuoti e questi traumi.

     llora come avviene questo passaggio di un trauma da una generazione all’altra? Ma, mi pare che avvenga prevalentemente in due modi. Un modo è quello che Racamier e Green chiamano il lutto congelato, un tema che è molto ricco. Che cos’è il lutto congelato secondo questi autori? Il lutto congelato sarebbe una modalità di gestione del lutto che non è neanche la gestione paranoica del lutto di Fornari e della Klein, che dicevano che uno dei modi per gestire il lutto è dire che la colpa è di qualcun altro. Allora io dico questa volta è andata male ma perché mi hanno fatto così, e la colpa è del medico, di mia madre, di mia moglie ecc., la società. Questo modo di spostare su un persecutore esterno la colpa di un danno subito è un modo per liberarsi dal dolore della perdita, perché attribuire a qualcuno la colpa della perdita dà più senso alla vita piuttosto che dire semplicemente che la perdita c’è e basta. «Ho perduto mio figlio, ma sono stati i medici che non sono stati capaci». E’ orribile, ma è l’idea di una spiegazione paranoica. Dire ho perduto mio figlio e la vita è fatta anche così è più difficile, è più drammatico come discorso.

     Il lutto congelato è questo: «io di fronte al dolore annullo in me ogni tipo di affettività, non provo più nessun tipo di emozione, né positiva né negativa, divento una specie di pezzo di ghiaccio e gestisco la vita come se fosse un immenso problema pratico: magiare, cucinare, allestire le cose, lavorare, uscire, il mondo diventa una gigantesca impresa operativa. Devo guidare, guido; devo guadagnare, guadagno; devo lavare i piatti, lavo i piatti: basta». Magari eroicamente, anche sacrificandosi. Ci sono delle persone che si affaticano tutta la vita come dei somari che tirano il carretto e basta. Queste persone sembrano legate in qualche modo alla gestione della vita come una questione operativa e basta. Questa gestione operativa del lutto congelato è un tema ricorrente nella letteratura francese, credo che ne parli Racamier ne Gli schizofrenici e ne Lo psicoanalista senza divano. E’ il congelamento degli affetti, il lutto congelato è un lutto di cui non si può parlare, ma per non parlare del lutto non si parla più di nessuna emozione. Allora è chiaro che un figlio che si trovi di fronte a un padre o a una madre che hanno un lutto congelato sarà un figlio il quale percepisce che c’è un’area della vita che non si può toccare, che lì c’è una centrale nucleare, ci vuole il piombo altrimenti ci sono le radiazioni. A questo punto questa persona, questo bambino percepirà una strada sbarrata, no entry, di lì non si passa. Allora questa percezione di un segreto indicibile può determinare con facilità anche una sintomatologia di tipo borderline, può determinare un’aggressività, una ribellione, un distacco, una perdita di fiducia, un attacco che miri a dire: «e scrollati tu con questa tua modalità sempre uguale, sempre operativa, o dimmi il tuo segreto, oppure non me lo dire e vattene a quel paese, non mi interessi più».

     Una modalità attraverso la quale si può trasmettere il trauma di generazione in generazione è questa modalità di congelare il lutto. Io ne ho viste molte di queste situazioni: persone che hanno perduto una persona cara, per esempio, donne che si sono sposate con un uomo che non amavano dopo che hanno perduto un grande amore, o uomini che avevano una tematica molto importante di ambizione bloccata, o che hanno avuto dei trascorsi violenti, che si sono sentiti figli cattivi, che hanno avuto una lite furibonda per un fratello che è riuscito meglio, tante situazioni simili. Queste persone sono persone che facilmente hanno sepolto sotto un mare di calce una tematica affettiva al prezzo però di congelare l’intero quadro emozionale. Questo è un modo nel quale da una generazione all’altra si può trasmettere un trauma. Cioè in qualche modo una storia antica di famiglia diventa congelata come i morti di mafia che sono murati dentro i piloni e nessuno li scoprirà mai più, però si sa che lì c’è qualcosa.

     L’altra modalità invece, più frequente, è costituita da quelle modalità di gestione del trauma di cui abbiamo parlato prima e che sono l’iperreattività, la dissociazione, la coazione a ripetere. E’ possibile che questi genitori ex traumatizzati, già traumatizzati, portino con i loro figli iperreattività, dissociazione e coazione a ripetere ripetendo le stesse modalità di gestione del trauma che abbiamo visto per i loro figli. E’ come mettere insieme due emofilici che appena si toccano si fanno male e reagiscono con la triade maledetta, iperreattività, dissociazione e coazione a ripetere; allora l’unica cosa è prendere l’uno da una parte e l’altro dall’altra, separarli nei limiti del possibile a abituarli tutti e due a una visione del trauma più efficace che permetta a tutti e due di far vedere loro come perpetuano all’infinito una modalità post-traumatica di comportamento e questo permette anche di prevedere quello che succederà loro.

     Io sono convinto che questa tematica che ho riassunto nei limiti del possibile ci dia una prospettiva terapeutica significativa: questo presuppone che il borderline sia curato in piccoli gruppi specializzati, con terapeuti che sappiano bene con che tipo di patologia hanno a che fare e che lavorino con il paziente o la paziente e la persona più importante della sua famiglia.



(*) La trascrizione della conferenza è stata curata da Cesare Romano. Le note non fanno parte del testo della conferenza e sono state aggiunte successivamente a cura di chi ha trascritto il testo. Poiché non sono state condivise con l’autore della conferenza, del contenuto delle note è responsabile soltanto il trascrittore. Alcune note sono semplici indicazioni bibliografiche o brevi precisazioni del testo, altre vogliono fornire spunti di riflessione ulteriori sull’argomento trattato.

[1] Per approfondire la conoscenza del disturbo borderline, oltre all’ormai classica opera di Kernberg, Sindromi marginali e narcisismo patologico, Bollati Boringhieri, e all’altro testo di Kernberg, Aggressività, disturbi della personalità e perversioni, Raffaello Cortina 1993, segnalo un’altra serie di opere con vario orientamento rispetto alla patologia borderline. Il testo di Clarkin J.F. e Lenzenweger M. F., I disturbi di personalità. Le cinque principali teorie, Raffaello Cortina, Milano 1997, analizza il disturbo borderline dal punto di vista della teoria cognitiva, psicoanalitica, interpersonale, evolutiva e neurobiologica. Il testo di Gunderson J. G., La personalità borderline. Una guida clinica, Raffaello Cortina, Milano 2003, rappresenta un manuale sufficientemente completo e aggiornato e di agevole lettura sulla patologia borderline; il testo di Paris J, Contesto sociale e disturbi di personalità, Raffaello Cortina 1997, è un testo di scarso interesse che affronta il disturbo borderline da una prospettiva bio-psico-sociale ma ponendo un accento eccessivo sul fattore costituzionale, e contiene affermazioni alquanto discutibili sul trauma. Un testo di notevole interesse è quello curato da Cesare Maffei, Il disturbo borderline di personalità, Bollati Boringhieri. Un testo assolutamente raccomandabile per la completezza e per la buona qualità degli interventi è quello curato da Joel Paris, Il disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina, Milano 1995. Un altro testo di notevole interesse, ma di lettura più difficile, è quello di André Green, Psicoanalisi degli stati limite, Raffaello Cortina, Milano 1991. Per quanto riguarda la psicoterapia del paziente borderline, segnalo il testo di Clarkin J.F., Yeomans F. E. e Kernberg O.F., Psicoterapia delle personalità borderline, Raffaello Cortina, Milano 2000, che illustra la psicoterapia focalizzata sul transfert, e il voluminoso testo di Marsha M. Linehan, Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline, Raffaello Cortina, Milano 2001, che illustra la terapia dialettico-comportamentale da lei stessa ideata. Sempre nel 2001 è uscito il bel testo di Correale A., Alonzi M., et al., Borderline, ed. Borla. Si tratta di un testo molto denso e ricco ma di piacevolissima lettura , che affronta la tematica borderline ad ampio raggio ed in maniera esauriente e che non ha nulla da invidiare ai più corposi manuali che ho precedentemente citato: un testo assolutamente da leggere prima di qualunque altro manuale e da parte di tutti gli operatori che sono coinvolti nel trattamento e nella gestione di questi pazienti. Recentemente è uscito un testo di Bateman A. e Fonagy P., Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Psicoterapia con il paziente borderline, Raffaello Cortina 2006. Per un resoconto in prima persona del disturbo borderline consiglio la lettura del libro di Valentina Colombani, Borderline, Einaudi, Torino 2004.

[2] Il testo è stato tradotto in italiano: Judith Lewis Herman, Guarire dal trauma, Edizioni Magi, Roma 2005.

[3] Sul trauma esiste una letteratura piuttosto vasta che si può grosso modo dividere in due filoni: il filone psichiatrico e quello psicoanalitico. Nella letteratura psichiatrica segnalo i seguenti testi sulla tematica del trauma, oltre al testo della Herman già citato da Correale. Marinella Malacrea, Trauma e riparazione, Raffaello Cortina, Milano 1998, che tratta il tema dell’approccio al paziente traumatizzato e del percorso terapeutico, con particolare riferimento al tema dell’abuso sessuale infantile. Su questo tema specifico segnalo il bel libro di Malacrea e Lorenzini, Bambini abusati, Raffaello Cortina, Milano 2002, che affronta il problema del trattamento dei bambini abusati nell’ambito dei servizi e dedica ampio spazio anche agli aspetti legali oltre alle conseguenze psicopatologiche dell’abuso. Il libro è molto ben organizzato e questo lo rende un testo di facile consultazione e adatto alle molteplici figure professionali coinvolte sul tema del trauma infantile. Un ottimo libro che affronta il tema del rapporto tra trauma e disturbi di personalità con particolare riferimento al disturbo antisociale e ai comportamenti aggressivi è il libro di Felicita De Zulueta, Dal dolore alla violenza, Raffaello Cortina, Milano 1999.

Per quanto riguarda il filone psicoanalitico, il dibattito sul trauma ha origine dalla riscoperta e rivalutazione dell’opera di Sándor Ferenczi che ha ricevuto notevole impulso soprattutto nell’ultimo decennio. Segnalo alcune opere fondamentali sulla tematica del trauma, che portano tutte contributi di estremo interesse e di ottimo livello: Franco Borgogno (a cura di), La partecipazione affettiva dell’analista, Franco Angeli, Milano 1999; Carlo Bonomi e Franco Borgogno (a cura di), La catastrofe e i suoi simboli, UTET, Torino 2001 (di questo volume consiglio soprattutto l’introduzione di Bonomi e Borgogno, La traumatica storia del trauma e il bel saggio di Bonomi, Breve storia del trauma psichico dalle origini a Ferenczi, 1870-1930 ca) ; Franco Borgogno (a cura di), Ferenczi oggi, Bollari Boringhieri, Torino 2005. E’ consigliabile anche la lettura del Diario clinico di Ferenczi pubblicato da Raffaello Cortina, Milano 2004. Tra gli articoli segnalo l’interessante articolo di Steven Reisner, “Trauma: the seductive hypothesis”, in Journal of the American Psychoanalytic Association, 51/2, 381-413, 2002. Nello stesso anno 2002, la Revue Française de psychanalyse ha dedicato il terzo numero ad una monografia sul trauma.

[4] Gli studi di neuroscienze hanno dimostrato l’importanza dello stress e delle strutture ippocampali sulla registrazione dei ricordi traumatici. Mentre uno stress moderato faciliterebbe la trascrizione dei ricordi traumatici, uno stress prolungato tende a danneggiare le strutture ippocampali e i processi di trascrizione mnestica (Jposeph Le Doux, Il cervello emotivo. Baldini & Castoldi, pp. 248-255). Due neuroscienziati, Solms e Turnbull hanno osservato che «è molto probabile che il malfunzionamento ippocampale sia una componente importante della rimozione (cioè dell’indisponibilità alla coscienza) di ricordi traumatici. Qesti ricordi sono codificati in una forma che non permette loro di essere accessibili alla rievocazione cosciente successiva, a causa della disfunzione ippocampale avutasi durante il momento traumatico stesso» ( Mark Solms e Oliver Turnbull, Il cervello e il mondo interno, Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 191.

[5] Con molta probabilità il brano a cui si riferisce l’autore è la testimonianza di una ragazza violentata riportata nel libro di Judith Herman, Guarire dal trauma, Edizioni Magi, Roma 2005. Riporto la testimonianza che si trova a p. 59 del testo, ove l’autrice affronta il tema della coazione a ripetere delle persone che hanno subito un trauma:

«Sohaila Adulali, vittima di violenza sessuale, descrive la sua determinazione a tornare sulla scena del trauma: “Ho sempre odiato la sensazione che qualcosa si fosse preso il meglio di me. E quando questa cosa accadde, ero in un’età così vulnerabile, avevo 17 anni. Dovevo provare che quelli non avevano avuto la meglio su di me. I tipi che mi hanno violentato mi dissero: ‘Se mai ti troviamo qui sola, ti prendiamo ancora’. E io gli ho creduto. Così è sempre con un po’ di terrore che cammino per quel vicolo, perché ho sempre paura di vederli. Infatti, nessuno che io conosca camminerebbe per quel vicolo da solo, di notte, perché non è affatto sicuro. Alcuni sono stati aggrediti ed è fuori questione che sia pericoloso. Eppure una parte di me sente che, se io non passo di là, allora quelli l’avranno vinta su di me. E così, molto più degli altri, continuerò a camminare per quel vicolo (Intervista con S. Abdulali, 1991)».

Questa testimonianza rende conto di come, chi non comprende quella drammatica tendenza della vittima a ritornare sul trauma e a riesporsi al trauma nel tentativo di padroneggiarlo, sia portato a colpevolizzare la vittima stessa con la sbrigativa asserzione che è stata la vittima a provocare e ricercare nuovi episodi traumatici, mentre è questa invincibile coazione a ripetere che paradossalmente riespone la vittima alla ripetizione del suo trauma.

[6] Nell’ambito di questa “logica del senso” del trauma riporto, come spunto di riflessione, la posizione di James Hillman, valida all’interno della sua particolare visione un po’ mistica e un po’ cosmica della psiche umana. L’autore si riferisce ad un rapporto violento e traumatico padre-figlio. «Non è tanto il trauma che crea il danno, quanto il “ricordare in modo traumatico” […] Nella memoria rimango una vittima. La memoria continua a rendermi vittima. In secondo luogo continua a tenermi nella posizione di figlio, perché la mia memoria è bloccata nel modo di vedere del figlio e io non ho spostato la mia memoria. Non è che la violenza non sia avvenuta, non sto negando che sia avvenuta o che io abbia bisogno di credere che sia concretamente avvenuta. Ma posso riuscire a pensare la brutalità – a circoscriverla, come si dice – come un’esperienza d’iniziazione. Le ferite dovute a mio padre hanno prodotto in me qualche cosa per farmi capire la punizione, per farmi capire la vendetta, per farmi capire la sottomissione, per farmi capire la profondità della rabbia fra padri e figli, che è un tema universale, e io ho avuto parte in esso. Ero in esso. E così ho in qualche modo spostato la memoria dalla situazione di figlio vittima di un padre miserabile. Sono entrato nelle fiabe, nei miti, nella letteratura, nel cinema. Con la mia sofferenza sono entrato in un mondo immaginale, non in un mondo semplicemente traumatico» (J. Hillman, Cent’anni di psicanalisi e il mondo va sempre peggio, BUR Rizzoli, 2005, pp. 37-38). Questa sembra una modalità di superare il trauma attraverso una falsificazione della memoria, più che un suo spostamento. Supero il mio trauma perché mi racconto una storia nella quale non figuro più come vittima ma figuro come testimone di un destino cosmico. Questa modalità ricorda la costruzione del romanzo familiare dei nevrotici di cui parlava Freud, e induce ad una accettazione della propria storia traumatica innescando fantasie megalomaniche di partecipazione cosmica al destino del mondo che sfiorano la costruzione delirante. Ciò che mi sembra ancora più importante è il fatto che una tale visione del trauma non apre nessuna prospettiva terapeutica nuova.

[7] Riporto per esteso il brano di Freud cui si riferisce il relatore: «Insisto nella raccomandazione di far stendere il malato su un divano mentre prendiamo posto dietro di lui, in modo ch’egli non possa vederci. Questa disposizione ha un significato storico, è ciò che è rimasto del trattamento ipnotico dal quale si è sviluppata la psicoanalisi. Merita però di essere mantenuta per molteplici ragioni. In primo luogo per un motivo personale, che però altri, forse, condividono con me. Non sopporto di essere fissato ogni giorno per otto (o più) ore da altre persone. Dato che mi abbandono io stesso, mentre ascolto, al flusso dei miei pensieri inconsci, non desidero che l’espressione del mio volto offra al paziente materiale per interpretazioni o lo influenzi nelle sue comunicazioni». Freud S. (1913-14), Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, OSF, vol. 7, p. 343, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1995.

[8] Su questo disturbo della memoria cito l’interessante osservazione di Michael Stone: «Una caratteristica particolare della memoria dei pazienti borderline è che essi rimangono in balìa dell’ultima impressione sensoriale sorta all’interno di un rapporto interpersonale. Quindi anche l’atteggiamento più amorevole da parte di un partner conosciuto già da molti anni può, in un solo istante, essere rimosso dalla memoria se l’ultima interazione con lui/lei viene interpretata (correttamente o a torto) come disturbante. Potrebbe seguirne un’esplosione di rabbia, accompagnata da invettive come “non mi hai mai amato”, oppure “Sei sempre stato un buono a nulla…” . La persona borderline si comporta come se i legami tra la memoria a breve e a lungo termine si fossero interrotti. Tuttavia, il giorno dopo, una volta ottenuti sufficienti sostegno e rassicurazione, l’indicatore attitudinale potrebbe spostarsi verso l’estremo opposto» (Stone, “Eziologia del disturbo borderline di personalità”, in: Paris J., Il disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina, 1995, p. 100).

[9] Meares R., Intimità e alienazione, Raffaello Cortina, Milano 2005.

[10] Sul tema della dissociazione segnalo il recente volume di Steinber M. e Schnall M., La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali, Raffaello Cortina, Milano 2006, e il volume di prossima uscita: Bromberg Ph. M., Clinica del trauma e della dissociazione, Raffaello Cortina, Milano 2006.

[11] Il fatto che il disturbo antisociale sia più frequente nei maschi potrebbe per esempio trovare una spiegazione in questa affermazione di Michael Stone: «I maschi che subiscono abusi fisici, specialmente se successivsamente sviluppano la sindrome BPD, manifestano spesso una miscela di comportamenti antisociali» (Stone, “Eziologia del disturbo borderline di personalità”, in: Paris J. (a cura di), Il disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina 1995, p. 95.

[12] Kafka F., Lettera al padre, Tascabili Economici Newton, Roma, 1994. Riporto l’inizio della lettera al padre, dalla quale emerge il tema dominante della paura così come lo riferisce Correale: « Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto» (p. 25). Sul tema dell’opera di Kafka e della sua relazione con l’infanzia traumatica dell’autore consiglio di leggere il libro di Alice Miller, Il bambino inascoltato, Bollati Boringhieri, Torino 1993, al capitolo 20: “La letteratura: le sofferenze di Franz Kafka”, pp. 251-312. Il padre di Kafka, in realtà, non lesse mai questa lettera, perché proprio per la paura del padre Kafka la inviò alla madre perché questa la facesse poi avere al padre, ma la madre invece la restituì al mittente.

[13] Sul tema dell’influenza che esercita la depressione materna sul bambino segnalo un interessante testo di André Green del 1980 intitolato La madre morta, che costituisce il sesto capitolo del volume di Green, Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Borla, Roma 1985, pp. 265-303. In questo bellissimo testo André Green analizza l’«imago che si è formata nella psiche del bambino in seguito a una depressione materna, trasformando brutalmente l’oggetto vivente, sorgente della vitalità del bambino, in una figura lontana, atona, quasi inanimata […] La “madre morta” è dunque, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, una madre che resta in vita, ma che è, per così dire, morta psichicamente agli occhi del piccolo bambino di cui si prende cura» (p. 265).


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