Il disturbo borderline sempre più si va
configurando come un disturbo che deriva dall’esposizione di bambini
o bambine ad ambienti altamente traumatizzanti, in cui il trauma
non è necessariamente “il trauma”, cioè quell’evento che è successo
una volta e da allora non ci possiamo più dimenticare, ma è un
trauma ripetuto, cumulativo, costante, e che in qualche modo caratterizza
la vita come una presenza disturbante fissa, una specie di struttura
allarmante continuativa. Questa esposizione ad un allarme continuativo
nelle figure più vicine, che dovrebbero assicurare una protezione
dall’allarme e invece assicurano un allarme appunto, anziché una
protezione dall’allarme, determina una specifica situazione che
ormai è quella che gli psicologi cognitivisti, gli psicologi dell’attaccamento
e anche gli studiosi di neuroscienze e una certa quota non piccola
anche di psicoanalisti, convergono nell’idea che questa sia la
radice della formazione di questo disturbo borderline. [1]
Seconda cosa, la famiglia del paziente
borderline molto spesso è una famiglia di persone che a loro volta
sono state vittime di traumi infantili. Quindi in qualche modo
si può dire che la crudeltà, l’ imprevedibilità, la violenza,
l’esplosività che certi genitori tendono ad esercitare su certi
figli sia l’espressione di un trauma, una catena generazionale
tragica, per cui la vittima diventa persecutore. E questo getta
una luce anche abbastanza importante sul fatto che certe situazioni
sociali, certe guerre, certi scontri, certe carestie, certe epidemie,
le pulizie etniche, i bombardamenti, le persecuzioni di dittature
feroci e spietate come è avvenuto in Argentina, per esempio, sono
cose che hanno conseguenze sulle generazioni future, non soltanto
sulle generazioni attuali.
In qualche modo ciò che succede a una
generazione che ha il potere di indurre in quella generazione
un traumatismo personale e collettivo può diventare veramente,
come accennava prima il dott. Nosé, può diventare un trauma trasmesso
per via transgenerazionale con delle modalità per cui, secondo
la tragedia greca, i figli diventano dei drammi e delle tragedie
dei genitori. Più che di una crudeltà dei genitori sui figli,
io parlerei di una trasmissibilità inconscia drammatica e tragica
di una cecità di alcune persone traumatizzate che scaricano ciecamente
il loro trauma sulla generazioni successive, e quindi in qualche
modo questo va fronteggiato come una emergenza che richiede un
aiuto, sia alla generazione traumatizzante che a sua volta è stata
traumatizzata, sia alla generazione successiva. Questo discorso
sul trauma mi sembra che abbia una implicazione terapeutica significativa
e importante, non resta un discorso teorico ma in qualche modo
ci dà degli strumenti per intervenire. Più che altro non bisogna
colpevolizzare esageratamente, non si tratta di non riconoscere
la crudeltà che gira, ma si tratta di rendersi conto che molto
spesso dietro la crudeltà c’è una cecità, e che la cecità a sua
volta è la spaventosa legge umana per cui le vittime diventano
persecutori.
Ecco, questo a me sembra un aspetto molto,
molto importante: chi ha subito un trauma spesso traumatizza
gli altri. Questo è il tema con il quale vorrei
dare un taglio, un’impronta al mio discorso.
Due parole molto rapide: questa visione
del disturbo borderline come un disturbo da traumi cumulativi
ripetuti si va affermando sempre di più adesso sulla base delle
ricerche sull’attaccamento e ormai moltissimi ricercatori, specialmente
negli Stati Uniti e Inghilterra (c’è una bibliografia molto ampia
in questo campo) tendono a dire che il disturbo borderline deriva
da delle forme di attaccamento disorganizzato e disturbato e drammaticamente
discontinuo tra la figura accudente e le figure accudite, e tra
l’altro anche il trauma mi pare che è una tematica che è molto
studiata ormai; c’è un Istituto per lo studio del trauma a New
York che è diretto da un americano che è uno psicoanalista ed
anche un neurofisiologo che si chiama Van der Kolk, e poi c’è
un libro molto bello di un’americana, Judith Hermann, dell’Università
di Harvard, che si chiama Trauma and Recovery [2]
: sono tutti temi in cui sembra che la tematica traumatica viene
sempre più collegata con un disturbo del carattere che si origina
nelle prime fasi della vita e che in qualche modo tende a superare
l’idea che il disturbo borderline sia basato soltanto su una sorta
di rabbiosità originaria molto violenta di cui i borderline sarebbero
portatori; c’è questa visione che ancora in qualche modo perdura
con Kernberg, sulla scia anche del disturbo come era visto dalla
Klein, per cui sembra che in qualche modo si abbia a che fare
con dei pazienti che hanno una dotazione di rabbiosità eccessiva
su base costituzionale. Ora quest’idea che ci siano certi pazienti
invasati dalla rabbia che li porta a dividere il mondo in buoni
e cattivi per difendersi dalla rabbia credo che sia in parte vera
ma che questa rabbia a sua volta acquisti una luminosità, abbia
una leggibilità molto maggiore se la vediamo inserita in una storia.
Qui non si tratta di giustificare la crudeltà o la rabbia che
questi pazienti molto spesso esercitano su chi sta intorno a loro,
ma di inserirla in una vicenda storica.
Molto spesso ricostruire vicende traumatiche
con loro in un clima di sicurezza e di protettività permette un
controllo sulle crisi rabbiose successive e controllare le relazioni
rabbiose che ci sono nelle famiglie dei borderline accudendo e
creando una buona relazione di sicurezza con il paziente borderline
e con le sue figure di accudimento spesso e volentieri rompe queste
relazioni imprigionanti, violente che attivano continuamente la
ripetizione all’infinito della drammaticità e permette di prevedere
comportamenti più controllati e meno distruttivi. Si potrebbe
dire in un altro modo che curare un paziente borderline o una
paziente borderline significa curare una relazione fra questo
paziente e una figura o più figure familiari che sono intrappolate
con lui o con lei in una relazione di odio-amore indistruttibile
e molto vincolante in cui la famosissima battuta «né con te né
senza di te» diventa la legge della vita: cioè non posso stare
senza di te ma non posso neanche stare con te, e quindi questo
rapporto violentissimo, distruttivo, conflittuale tra un bisogno
rabbioso dell’altro diventa la matrice delle terapie. Cioè se
si riesce a intervenire in questa relazione separando il trauma
della figura genitoriale e il trauma della figura del figlio,
in qualche modo creando due spazi distinti e offrendo delle possibilità
di spaziosità in questa prigione in cui molto spesso i pazienti
borderline sono imprigionati, questa situazione permette delle
aperture. Anzi io vi consiglierei ai fini terapeutici di dire
sempre quando siamo in presenza di un borderline: «quale è la
relazione che la imprigiona? Dentro quale prigione è caduta questa
persona, e dentro quale prigione tiene le persone che la tengono
in prigione? », perché non c’è uno che tiene in prigione un altro,
ci si tiene in prigione reciprocamente. Quindi questa mi sembra
che potrebbe essere sul piano terapeutico una indicazione importante.
Ora parleremo rapidamente del trauma,
ripeto, consapevole come sono che si tratta di una teoria, ma
di una teoria che ormai sta prendendo piede in modo molto solido,
molto diffuso, che non disdegna di riconoscere una matrice costituzionale.
Siamo in presenza di bambini e di bambine che hanno una bassissima
tolleranza alla frustrazione e una altissima sensibilità agli
attacchi, con la tendenza a reagire in modo impulsivo, su questo
non c’è dubbio, ma si tratta quasi sempre di bambini e di bambine
che provengono da situazioni altamente traumatizzanti.
Ora parliamo del trauma. Il trauma è una
tematica esplosiva.[3] Voi sapete che il concetto
di trauma è discutibile, perché giustamente si può dire che per
qualcuno è un trauma ciò che per qualcun altro non lo è, allora
cosa designamo “trauma”: il papà che ti sgrida perché hai preso
sei a scuola invece di otto è un trauma per un bambino e per un
altro non lo è, non c’è dubbio, e lo stesso se dei genitori ti
tirano qualcosa in testa questo può essere un trauma per un bambino
e per un altro può non esserlo, su questo non c’è dubbio.
Però altresì non c’è dubbio che non si
possa limitare il concetto di trauma alla definizione di un evento
eccezionale che interrompe la continuità e l’armoniosità della
vita: è chiaro che un bombardamento, un terremoto, un lutto improvviso,
un incidente stradale, una rapina a mano armata, uno stupro, sono
tutti eventi che introducono un elemento di discontinuità spaventoso
che va al di là delle normali coordinate in cui noi siamo inseriti.
Però ripeto, si tratta di una determinazione eccezionale. Allora
io credo, e su questo sono sostenuto da buona parte degli studiosi
che ho citato, come ad es. Van der Kolk che dice: “ ma perché
non studiamo il trauma e lo definiamo sulla base degli effetti
che ha sulla persona, anziché il trauma in quanto tale?” Cioè
trauma è tutto ciò che determina sulla mente un certo tipo di
reazione. Allora si può dire che si può definire trauma sia un
certo tipo di padre o di madre sia il terremoto che ti fa crollare
la scuola sulla testa e ti fa morire tutti i compagni. E’ chiaro
che non c’è la stessa relazione, però l’unità del concetto non
deriva dall’evento ma dall’effetto che l’evento ha sulla persona
che lo subisce. Allora si può dire: qual è questo effetto? Sostanzialmente
sono due gli effetti che possono definire il concetto di trauma:
1) trauma è qualunque evento che
determini una discontinuità nella capacità rappresentativa della
mente: cioè il cervello sottoposto a quel tipo di esperienza
cessa la sua capacità di produrre immagini, pensieri, associazioni
e si localizza su un frammento dell’esperienza o sull’unica emozione,
protettiva, rabbiosa, irritante, o quello che è, ma che ha lo
scopo di proteggere dall’evento. E’ come se di fronte a certi
eventi la nostra mente si preoccupasse esclusivamente di proteggersi
e questa protezione avvenisse a spese delle capacità di capirmi.
Il trauma è ciò che determina una interruzione nella capacità
di comprendere, perché tutto l’organismo e tutta la mente si organizza
attorno alla capacità di proteggersi da ciò che succede; questo
è un modo che la Herman descrive con la metafora dell’esplosione,
cioè il trauma è un’esplosione. Se io apro la porta di una stanza
e in quel momento scoppia una bomba in quella stanza, c’è un’esplosione,
quello che io vedo in quel momento sono frammenti, luce, dolore,
botto, magari una finestra che sbatte… ma non è che colgo una
integrità dell’evento, ma colgo una somma di frammenti esplosi,
e ricorderò in quel momento che sono stato in una stanza e non
ho più capito niente, non ricordo, non so raccontare che cosa
è successo, la realtà diventa una serie di frammenti esplosivi,
dirompenti, rabbiosi, emozionalmente molto carichi ma privi di
una loro coerenza rappresentativa. D’altra parte si è visto anche
negli studi di neuroscienze che ci sono dei dati
molto interessanti che dicono che il trauma tende, proprio anche
da un punto di vista elettroencefalografico, a far fuori le attività
corticali e a lasciare intatte le attività limbiche e ipotalamiche,
cioè in altre parole è come se l’organismo dicesse: «di fronte
a questa cosa non hai bisogno del pensiero, anzi il pensiero ti
ostacola, hai bisogno soltanto di salvarti».[4] Infatti Bion, se ricordate,
diceva: «Chi è il buon capo?» (Bion usava la metafora militare)
Il buon capo è colui che nei momenti del pericolo riesce a mantenere
una capacità di pensare, perché normalmente nei momenti di pericolo
grave i soldati scappano o attaccano ciecamente. Il capo è quella
persona che di fronte al trauma riesce a mantenere una certa attività
di pensiero. Questa è una tematica interessante che permette di
introdurre un elemento di varietà nella reazione degli esseri
umani di fronte a questo tipo di emergenza.
2) l’altra cosa che si può definire come
descrizione dell’attività traumatica è la coazione a ripetere.
Pensate che van der Kolk dice che trauma è tutto ciò che
tende a determinare una tendenza a ritornare sul già avvenuto
e a ripeterlo, cioè trauma è ciò che tende a creare un’attrazione
ripetitiva su quell’evento. Lui aggiunge che questo è uno dei
più grandi misteri della mente umana, perché credo che nessuno
sia sicuro di poter dire perché succede questo. Voi ricordate
che Freud, in Al di là del principio del piacere, parlando
delle nevrosi di guerra, si chiede come mai questi soldati tendano
a ritornare sempre sulle loro esperienze traumatiche, continuamente
ripensano a quel momento: «io pensavo - dice Freud - che la cosa
più importante nella vita fosse la ricerca del piacere e invece
sembra che questi soldati vadano continuamente alla ricerca del
dolore». Perché devo tornare lì, perché c’è questa invasività
del pensiero e del trauma che continuamente attira non solo a
ricordare il trauma ma a ricreare le condizioni per cui il trauma
possa riverificarsi, per cui molto spesso un ragazzo che sia stato
picchiato diventerà violento, una ragazza che sia stata violentata
tenderà a ripetere delle circostanze che la portino ad essere
nuovamente abusata, non sempre, ma si ripresenta di frequente,
soprattutto nel disturbo borderline, questa tendenza a ripercorrere
drammaticamente la necessità di riattraversare il trauma subito.
Ora, se ricordate, Freud diceva che questo avviene come un tentativo
di padroneggiare il trauma, come se ritornandoci sopra, ritornando
l’assassino sul luogo del delitto, io mi facessi l’idea che ogni
volta questa cosa non mi sconvolge ma la controllo. E’ una spiegazione
molto interessante, ma non so se sia vera. Ad esempio, una ragazza
riferiva (l’ho letto in un libro)[5]:
«dopo essere stata violentata io tendo sempre ad andare nelle
strade più pericolose dove posso fare brutti incontri, io lo so
che è così, io lo so che faccio male, ma è più forte di me, io
non gliela voglio dare vinta». Frase molto oscura: cosa vuol dire
non gliela voglio dare vinta? «Questo trauma io lo voglio riattraversare,
perché in qualche modo io sento che se lo rivivo, io non sono
morta per quel trauma, ma continuo ad essere viva di fronte a
quel trauma». E’ un aspetto molto drammatico e molto difficile
da capire, ma se noi ci rendiamo conto di quanto è forte nel disturbo
borderline la tendenza non ad evitare i traumi subiti ma a ricercarli
perché in qualche modo ritornare sul trauma significa fare l’esperienza
che questo trauma non ci ha ucciso, ma per sentire che non ci
ha ucciso lo dobbiamo riattraversare, allora possiamo comprendere
meglio questa coazione a ripetere. Ecco, è molto drammatica questa
cosa, molto triste.
Ad esempio io ho passato intere psicoterapie
con giovani uomini e donne borderline che continuamente mi riproponevano
la tendenza a riattraversare rapporti sadomasochistici, a riinnamorarsi
di persone sbagliate, a farsi trattar male da persone violente,
e sebbene si rendessero conto che questa cosa era sbagliata dicevano
che era più forte di loro, uno lo fa come una ricerca di stimoli,
uno come ricerca dell’avventura, però in qualche modo c’è sempre
la necessità di rivedere cosa mi succede se ci riprovo.
Ora io penso che questa tendenza a
ripetere il trauma è molto drammatica ma è anche molto utile sul
piano terapeutico, perché quando noi si riesce, nel corso
di un lavoro psicoterapico, psichiatrico o comunque all’interno
di una relazione terapeutica a far vedere al paziente quanto questa
ripetizione fa parte della sua modalità patologica di ritornare
sempre sul luogo di un evento antico, di una serie di eventi antichi
che l’ha danneggiato, questo aiuta la persona a prevedere i suoi
comportamenti, cioè dopo dieci, venti volte che una persona ha
messo in atto i suoi comportamenti ripetitivi, ha ripreso l’amfetamina,
ha attraversato di notte un quartiere malfamato, mi sono fatta
rimorchiare da quell’uomo violento che poi la mattina dopo mi
ha picchiata, ho attaccato briga col vigile urbano sapendo benissimo
che sarei stato denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale,
«ma in quel momento non potevo fare diversamente – dice – dottore,
era più forte di me», oppure, «non ero io in quel momento, non
so cosa mi è successo»…. allora questo ritornare su qualcosa secondo
delle modalità automatiche, delle modalità ripetitive, delle modalità
che in qualche modo pur essendo profondamente disadattative vengono
continuamente ricercate, sembrano essere delle modalità che dopo
che si sono ripetute 10, 20 volte, la persona può essere aiutata
dal proprio medico, dal proprio psicoterapeuta che alla fine gli
dice: «ma allora, come la vogliamo mettere questa cosa, cosa cerca
lei in quei momenti in cui fa così?». «Mah, non lo so, mi scatta
un click dentro la testa e non posso fare altro che così». Poi
si scopre molto spesso che all’origine di questa cosa c’era stato
un trauma attuale che l’aveva scatenata, un litigio con la madre,
un litigio con il padre, un parziale abbandono, una frase detta
male, una seduta saltata, che aveva riattivato la fantasia di
essere abbandonati e spesso maltrattati ed era scattato sul trauma
attuale la fantasia della ripetizione del trauma antico. Allora
di fronte ad un trauma attuale, parziale, è come se si mettesse
in moto la fantasia di ripercorrere l’antico trauma con tutti
i modi che abbiamo messo in scena per superarlo, insomma la ripetizione
di una serie di comportamenti postraumatici che però includono
in qualche modo la fantasia di controllare il trauma o in qualche
modo di sentirsi vivi dentro il trauma.
Per chiarire meglio questo punto vorrei
tornare al discorso della mancanza di senso. Io credo che certi
traumi introducono con forza il tema della morte, ma con morte
io non intendo la cessazione della vita, che quella, tutto sommato,
è meno spaventosa di quello che si pensa, ma quello che è veramente
terribile è la morte intesa come entrata in un mondo in cui le
cose non sono più dotate di vita, non sono più dotate di un senso,
di una loro legge, che poi è la legge che siamo degli esseri umani
e quindi in qualche modo la solidarietà, la tenerezza, l’affetto,
l’amore prenderanno il sopravvento, ma che siamo in un mondo in
cui ci sono soltanto sassi, schegge, pioggia, grandine,… ecco,
questa è la morte secondo il paziente borderline, un mondo in
cui momentaneamente c’è una rottura delle leggi naturali che indicano
che tra gli esseri umani è possibile un elemento di solidarietà.
Allora la morte è: “gli esseri umani non sono più esseri umani
ma diventano per un attimo forze della natura” e a questo punto
allora questo è un senso di morte, fatemelo dire con la famosa
frase di Machbeth che dice: «La vita è la storia raccontata da
un idiota piena di frastuono e di rumore che non significa nulla».
Questa frase mi sembra che potrebbe andar bene per il borderline
in quei momenti. Però c’è anche da dire che quei momenti possono
anche essere superati con facilità, che in qualche modo passato
il momento del disorientamento e della morte, se la persona si
riattacca ad una figura che gli dà un senso di continuità, di
protezione, di sicurezza, ci vorranno sei ore, qualche volta un
giorno o due, o certe volte ci vuole un bel ricovero, ma molto
spesso è come se lentamente il polverone terribile si ri-sedimentasse
e la persona ritrovasse, diciamo, dietro questa morte vuota un
senso invece di un certo calore delle cose. Ma è molto importante
che la persona senta che può ricostituire una relazione, un rapporto,
e che questo rapporto gli assicura il fatto che anche se tu mi
attaccato perché tu sei stato violento, ti ho tenuto fermo con
le mani, ti ho insultato per risvegliarti dallo stato in cui ti
trovavi, ti ho fatto il TSO e ti ho portato in ospedale perché
stavi diventando pazzo, io comunque ero là e su di me puoi contare
perché io non scompaio. Questa mi sembra la cosa più importante,
forse anche più importante della amorevolezza e della tenerezza
che spesso suscita una certa perplessità e una certa diffidenza
nel borderline. Quello che veramente è importante per il borderline
è la continuità, bisogna assolutamente evitare la legge del taglione.
Mai vendicarsi, magari insultarli, trattarli male, bloccarli,
se necessario impedirgli di fare le cose anche fisicamente ma
mai lasciarli, far sentire loro che noi ci siamo sempre: «io ti
faccio questo ma ci sono». Questo aspetto riconduce questo elemento
di logica.
Il trauma che introduce questo elemento
di discontinuità mortale e di perdita di senso, può essere invece
ricostruito attraverso una relazione che gli trasmette un senso
di sicurezza, che ci mette tanto tempo per formarsi, ma che lentamente
prende il posto del trauma distruttivo e violento che sta alla
base dell’origine del disturbo.[6]
Quali sono gli effetti più importanti
del traumatismo? Intanto, sicuramente, c’è la triade famosa
che è l’ipereccitamento (iperarousal), la dissociazione e la coazione
a ripetere. Cominciamo dall’ipereccitamento. L’iperarousal ( a
me piace questa espressione anche se è un pochino tecnologica
perché sta ad indicare un atteggiamento di tipo elettrofisiologico)
è una specie di allarme fisso, una specie di attenzione stabilmente
fissa su che cosa mi può succedere, è come se il paziente borderline
fosse sempre dell’idea che comunque sia, dietro alla faccia più
gentile, dietro l’espressione più affettuosa ci può essere sempre
la zampata, il graffio, il colpo, il pugno, l’offesa; sono persone
che sono perennemente in uno stato d’allarme. Se voi avete esperienza
di terapie con pazienti borderline, io credo che controtransferalmente
l’aspetto più drammatico sia l’enorme fatica, ci si stanca a morte,
almeno io mi stanco a morte e provo un’enorme fatica e direi che
è difficile che io abbia una seduta con un paziente borderline
durante la quale non ci sia in una parte del mio cervello la speranza
che non venga; poi è chiaro invece che spero che venga però, istintivamente,
mi vorrei risparmiare questa fatica. Spesso mi sono chiesto perché
c’è questa fatica, e io credo che questa fatica ci sia perché
con il paziente borderline noi siamo sempre come sotto un riflettore
che ci guarda con una luce spietata, come se fossimo sotto un
interrogatorio di quarto grado, ci guarda e ci guarda e ci guarda
per vedere adesso cosa mi dirai, perché, appunto, questo paziente
è talmente abituato all’idea che verrà tradito un giorno, che
ci mette continuamente alla prova per vedere se le cose che facciamo,
che diciamo, i nostri gesti, le nostre proposte, i nostri consigli
sono in qualche modo coerenti con l’assunto che noi siamo lì per
curarlo e quindi per proteggerlo e per proteggerla e per assicurargli
una continuità. Infatti Freud da qualche parte diceva che si era
seduto dietro il lettino perché non sopportava di essere guardato
dal paziente.[7] Io credo che col paziente borderline questa
cosa è aumentata al massimo grado, noi dobbiamo accettare che
i pazienti borderline ci guardano in modo spietato, non solo,
ma loro ci pongono anche questo problema. Ci dicono: «Quando tu
parli, parli da medico, parli da professore, parli da primario,
parli da assistente sociale, parli da infermiere, o parli anche
perché dietro questo tuo ruolo c’è anche una persona che sa di
cosa si sta parlando? Ecco, perché se tu parli soltanto come ruolo,
io dopo un po’ ti mando a quel paese e non ci si vede più». Di
fatto, è come se loro avessero una fame violenta di autenticità,
loro vogliono una specie di autenticità violenta ma la vogliono
in modo violento, mentre noi vogliamo essere autentici con le
persone che vogliamo noi, non è che andiamo in giro dicendo sono
autentico con tutti. Poi c’è chi è più portato ad essere autentico
e chi è meno portato. L’autenticità è un grande bisogno che noi
abbiamo ma l’autenticità è anche una fatica perché ci espone,
ci mette nella condizione di dover approfondire un rapporto, ma
noi non abbiamo sempre voglia di approfondire i rapporti, perlomeno
non con tutti, ma semmai con chi vogliamo noi. Invece con il borderline
non è così. E’ come se lui ci dicesse: «Mah, dottore, mi faccia
un po’ vedere, ma in quelle vene che io vedo dietro la sua fronte
scorre del sangue o scorre qualche altra cosa?», perché loro vogliono
vedere in che cosa consiste la nostra umanità, perché questo li
rassicura su un fatto: se noi apparteniamo alla categoria degli
oggetti allarmanti e traditori oppure no. Ripeto, io questo lo
trovo estremamente faticoso, faticosissimo, perché ci impone un
monitoraggio continuo di quello che diciamo, ci impone una tendenza
a trattare questi pazienti come un oggetto un po’ emofilico…basta
un colpo e viene l’emartro e poi ci vogliono quindici giorni perché
l’ematoma guarisca, per cui l’emofilico si muove con difficoltà,
perché ha terrore di avere quegli urti che la persona normale
invece si permette tranquillamente. Col borderline questi piccoli
urti diventano delle emorragie spaventose procurate da me che
ti ho dato solo un piccolo urto ma che in te diventa poi una emorragia
spaventosa.
Allora questa cosa costringe il terapeuta
ad una attenzione e a una vigilanza molto faticosa e allora in
questo caso l’essere anche molto sinceri, l’abbandonare la neutralità
terapeutica, la modalità analitica di starsene lì zitti e buoni
ad aspettare che il paziente associ, essere un po’ più attivi,
fare qualche domanda, esporre anche di più un aspetto emozionale
di se stessi, ma non nel senso di raccontare le proprie cose,
ma di parlare un linguaggio sufficientemente caldo, sensoriale,
non troppo astratto, dire per esempio “triste” invece che depresso,
“arrabbiato” invece che aggressivo, “disperato” invece di malinconico,
usare quindi delle parole che veicolino un senso di presenza,
di sensorialità, di pienezza, di partecipazione, non delle parole
troppo astratte.
Questo dovrebbe però essere al servizio
della tendenza a ricostruire in che modo i traumi della vita attuale
sono delle ripetizioni dei traumi della vita antica. Questo per
quanto riguarda l’ipereccitabilità. Un aspetto però drammatico
di questa ipereccitabilità consiste nel fatto che queste persone
hanno la tendenza ad avere dei litigi violentissimi con persone
della loro famiglia, litigi duranti i quali loro sono del tutto
automatizzati. Questo succede molto spesso in quelle coppie le
quali hanno la tendenza a fare sempre gli stessi litigi, madre
e figlia, padre e figlia, marito e moglie, nonno e nipote. Ci
sono alcune famiglie in cui si ha la sensazione che le persone
non si annoino mai di litigare sempre sulle stesse cose. «Tu sei
troppo distratto, sei troppo puntiglioso…» e si continua così
per una vita intera. Non si riesce ad accettare l’idea che uno
possa essere un po’ distratto e l’altro puntiglioso, ci si può
mettere un po’ d’accordo su questa cosa, ci possiamo correggere
un po’. E invece no. Questa modalità di ripetizione all’infinito
del litigio può essere vista, come fanno i kleiniani, con il fatto
che noi abbiamo bisogno dell’altro per evacuare le nostre parti
negative, e allora l’altro diventa il ricettacolo di tutto ciò
che noi non vogliamo essere, ma noi abbiamo bisogno dell’altro
per usarlo come una specie di luogo da evacuare. «Se mi togli
mia moglie da maltrattare non so più dove mettere le mie parti
negative». Questa è la classica spiegazione kleiniana.
La vicinanza intesa come offerta di un
ricettacolo di negatività, «ti amo perché tu mi consenti di farmi
da bidone della spazzatura, se non ci fossi tu che mi fai da bidone
dove metterei tutte le mie cose negative?» Questa è la spiegazione
kleiniana. Però io credo che questa spiegazione, che è vera in
certi casi, però non rende giustizia del fatto che molte coppie,
non solo coniugali, ma genitori e figli, invece, tendono a ripercorrere
questa strada in una modalità parzialmente alterata di coscienza
ed è come se in quei momenti il litigio mettesse in moto una modalità
quasi automatica di funzionamento: litighiamo perché non possiamo
non litigare. Non è come se si entrasse in una specie di “trance”
perché questo sarebbe eccessivo, è una specie di ruota dentata,
si va avanti così perché non si può fare a meno di fare questo.
Ci sono dei pazienti borderline che riferiscono dei litigi in
casa che hanno tutti, ma tutti, lo stesso identico decorso, cominciano
in un certo modo, proseguono altrettanto allo stesso modo e finiscono
in un certo modo, sempre, e la cosa incredibile è che ogni volta
la persona viene poi da me a dirmi: «Sa, ho litigato con mia madre»
e aggiunge «è la prima volta che litigo con mia madre» e quando
gli facciamo notare che lui ha litigato ottanta volte con sua
madre da quando l’ho conosciuto, dice «si, ma questa volta era
una volta particolare». Allora vuol dire che questi litigi sono
dotati di una ipereccitabilità, ma al tempo stesso di una perdita
parziale della memoria per cui avviene che ogni volta il litigio
è come se si verificasse per la prima volta.[8]
Allora, sulla scorta di altri colleghi,
ad es, un australiano, Meares, che ha scritto un libro molto bello
che vi consiglio di leggere e che si intitola Intimità e alienazione,[9] lui dice che
questi litigi si possono vedere come momenti di parziale alterazione
della coscienza, nel senso che le persone sono come trascinate,
c’è un calo dell’attenzione e una diminuzione della memoria per
cui le persone sono come trascinate nel meccanismo di personificare
dei personaggi e portano il loro litigio fino alle estreme conseguenze
e all’esaurimento di questa gamma di personaggi. Allora, questo
recitare questa parte fa parte dell’ipereccitabilità. E’un sintomo
patognomonico del disturbo borderline questa tendenza a ripetere
all’infinito delle modalità di rabbiosità per cui uno si sente
caduto nel ruolo di vittima e l’altro di persecutore, e questa
cosa la si manda avanti per molto tempo. Passata la rabbia, la
persona dice: «ma come è possibile che io abbia fatto questa cosa,
mi vergogno di essermi comportato in questo modo! In quei momenti
non sono più me stesso», e poi ci ritorna di nuovo e lo fa allo
stesso modo, e nel momento in cui ci ritorna non si pone il problema
se è se stesso o no, lo fa e basta.
In quei momenti c’è un crollo delle funzioni
di autoosservazione e la capacità di autoosservazione si riduce
al punto tale che la persona si regola secondo delle modalità
automatiche. Allora io direi che questa è una modalità post-traumatica
che sta ad indicare che c’è una ipereccitabilità, che questa ipereccitabilità
allarmata dà origine a delle modalità automatiche di comportamento
aggressivo che in qualche modo rappresenta una ripetizione all’infinito
di schemi comportamentali postraumatici che hanno lo scopo di
creare attorno al trauma originario una modalità reattiva che
ne permetta in qualche modo la fuoriuscita, però a prezzo di stare
dentro una prigione da cui non ci si può liberare.
L’altro meccanismo è il meccanismo
più legato alla dissociazione.[10] Questo è un tema antichissimo
di psichiatria, è inutile citare Pierre Janet e anche il primo
Freud che, negli Studi sull’isteria scritti in collaborazione
con Breuer, molto affascinanti, diceva che il trauma determina
una doppia coscienza. Perfino Orwell, l’autore del libro 1984,
diceva che il trauma determina un double think, un doppio
pensiero; cioè la persona che va incontro al trauma può dissociarsi,
cioè in qualche modo diventa due persone, una che risponde adeguatamente
alle cose che succedono, un’altra che sta recitando una parte.
Cioè il trauma tende a determinare dei nuclei di coscienza scissa
che in qualche modo si incistano e vengono fuori in momenti particolari,
quando il trauma si riattiva. Per esempio, la famosa Anna O.,
che aveva dovuto assistere il padre ammalato per molti anni era
convinta di essere una figlia molto dedita e lo era perché si
era sacrificata per il padre per anni e anni, però tutta la quota
di aggressività e di ingiustizia («perché mai la mia vita di giovane
ragazza deve diventare una prigionia per assistere un vecchio
malato cui pure voglio tanto bene») era rimasta separata, scissa.
Allora questa doppiezza diventa: io non sono una persona sono
due persone, sono quella che assiste il papà amorevolmente e in
certi altri momenti sono un diavolo che non si sa bene che cosa
vuole fare, ma che però non si riconosce nella prima figura. Però
la cosa interessante è che non si tratta di un conflitto del tipo:
«accidenti, io voglio tanto bene a mio padre, però, che strazio
quest’assistenza!», come farebbe una persona sana che riconoscerebbe
il conflitto e si renderebbe conto nello stesso tempo quanto è
doloroso doversi occupare di una persona cara malata invece che
andare a spasso col fidanzato. Invece quello determina una dissociazione,
cioè le due cose si separano: in certi momenti sono tutta brava
figlia, in altri momenti sono tutta un’altra persona. Allora dissociazione
è la creazione di uno stato di doppio funzionamento che in qualche
modo non si ricollega ad un’unità e che è la matrice di comportamenti
isterici più o meno importante, cioè in alcuni momenti questi
pazienti diventano più nettamente isterici e recitano la parte
di alcuni personaggi e in quei momenti si ha la sensazione di
non avere a che fare con la persona che conosciamo ma con un’altra
persona che viene fuori in certi momenti.
Ancora una volta, però, se invece di vedere
questo come una forma di crudeltà, di malvagità o una forma di
identità scissa, la vediamo come un esito di una presenza traumatica,
allora l’attività terapeutica non consiste nel giustificare eventuali
aggressività che nascono in quei momenti ma nel ricondurle alla
loro origine. «Tu hai avuto un doppio stato di coscienza dopo
che ti è successa questa cosa. Dopo che il tuo fidanzato non ti
ha telefonato quella sera o ti ha detto quella frase così, tu
non sei stata più la stessa. Cioè c’è un collegamento, c’è un
evento, non è che tu improvvisamente hai tirato fuori questa cosa,
ma tu stai reagendo a questo evento in questo modo». Quando noi
colleghiamo venti volte una certa reazione con un certo evento
la persona si impadronisce di questa conoscenza. Per esempio mi
posso immaginare che ogni volta che ci sarà una determinata cosa
durante la seduta io reagirò comportandomi con quella modalità
oppure farò finta che non me ne importi niente però darò adito
a comportamenti sessuali promiscui, oppure litigherò con mia madre
anche se in quel momento non c’era nessun motivo per litigare.
Allora questo ricondurre la vicenda sintomatica alla vicenda traumatica
attuale e a sua volta il ricondurre tutto alla vicenda traumatica
antica, ci può aiutare.
L’ultima cosa l’ho già detta prima, è
il discorso della coazione a ripetere. Mi pare che
gli elementi più importanti sono 1) che la persona tende a riproporre
l’evento traumatico anche con modalità invertite: posso essere
io a infliggere un trauma anziché essere quello a cui viene inflitto,
ci può essere cioè un gioco delle parti, attraverso il meccanismo
dell’identificazione con l’aggressore. Questo è un punto
molto importante; il meccanismo dell’identificazione con l’aggressore
è una delle modalità più significative di uscita dal trauma, perché
non c’è dubbio che in qualche modo il trauma eserciti anche un
indubbio fascino di potere (si veda ad esempio la “sindrome di
Stoccolma” o altri esempi). Sono dati molto drammatici, perché
la persona che viene sequestrata, che viene sottomessa ad una
prigionia, che viene messa nelle condizioni di essere totalmente
in balia di un’altra persona, molto spesso sviluppa nei confronti
della persona che l’ha messa in questa condizione una forma di
dipendenza sottomissiva. Perché noi ci aspettiamo, essendo completamente
soli in balia del nostro persecutore, che l’unica persona che
ci possa salvare è la stessa persona che in quel momento ci sta
uccidendo. Pensate a un bambino che si trova nelle mani di una
persona che in quel momento non capisce niente perché è accecata
dall’ira; il bambino non potrà soltanto ribellarsi, ma dovrà ribellarsi
e nello stesso tempo sforzarsi di indurre in tutti i modi nella
persona che lo sta maltrattando un atteggiamento amorevole, per
esempio promettendogli di star buono o promettendogli di non farlo
arrabbiare «perché forse ti ho fatto arrabbiare», dicendogli «non
ti arrabbiare, mammina, papà, nonnino, fratellino, sorellina.»
C’è quindi un aspetto molto drammatico che non può mai essere
trascurato del tutto perché l’idea che chi ci maltratta determina
in noi rabbia e ribellione è una idea molto semplice ma non sempre
vera, perché chi ci maltratta determina in noi rabbia e ribellione
unita a una sottomissione drammaticamente tragica e alternata
alla rabbia, per cui ne viene fuori questa tremenda complicazione
che chi viene maltrattato tende a riproporre il maltrattamento
o nella figura del maltrattato o nella figura del maltrattante.
Se poi chi viene maltrattato ha una capacità di raffreddamento
molto forte dei propri sentimenti, e una capacità fredda di utilizzare
la mente per gestire la situazione in modo da salvarsi, è molto
probabile che il maltrattamento dia adito ad un disturbo antisociale
di personalità.
Il borderline in qualche modo è una persona
nella quale la stessa emozionalità, quello che prova, lo rende
più umano in qualche modo, anche più soggetto alle leggi dei rapporti
umani; l’antisociale è colui o colei il quale fa proprio un patto
col diavolo, vale a dire io non mi emoziono più, io decido che
l’unico modo per reggere ai maltrattamenti è di “studiare da maltrattante
io”, e lo farò, con tutta la freddezza che mi è necessaria e mi
è possibile.
Per esempio un tema di studio molto interessante
è: quali sono i borderline che diventano antisociali e quali
sono i borderline che rimangono borderline?[11] Quali sono i momenti della
vita in cui si divarica questa storia? Questo direi per tutto
quello che riguarda la tematica del trauma.
Io credo che però il trauma di cui si
parla in queste famiglie è un trauma di carattere cumulativo e
ripetitivo, qui molto spesso si ha a che fare con traumi che non
sono così leggibili. Io su questo vi inviterei a rileggere un
testo molto drammatico e molto interessante che è la Lettera
al padre di Franz Kafka[12], che sicuramente
molti di voi avranno letto, che è un testo veramente un po’ straziante
perché si sente in Kafka tutto il dramma di un figlio (Kafka non
era un borderline ma ci può aiutare a capire che cosa significa
trauma cumulativo) perché si sente in questo testo tutto il dramma
di un figlio che è sinceramente attaccato al padre ma al tempo
stesso ne ha una paura spaventosa. Lui dice: «Caro papà, io non
ho mai provato un solo momento della mia vita in cui tu non mi
facessi paura; poi io riconosco che tu eri bravo, che tu mi volevi
bene, che tu ti aspettavi da me grandi cose, che tu mi hai regalato
beni, speranze, mi hai pagato gli studi, hai parlato bene di me
con gli amici; ma non è questo, non è il voler bene in discussione,
ma tu mi facevi paura, e mi facevi paura per come eri, eri fatto
in un modo che mi facevi paura; c’era nel tuo modo di parlare,
nel tuo modo di esprimerti, nel tuo modo di gesticolare, nel tuo
modo di affermare le tue idee c’era qualcosa che a me, piccolo
bambino un po’spaurito, sognatore, portato a scrivere poesie di
notte perché non dormivo, con i miei problemi polmonari in arrivo
e le questioni psicosomatiche, con i miei problemi con le donne….,
ebbene, questa tua vitalità, questa tua forza, questa convinzione
che la vita è così e così ed è soltanto così e basta, tutto questo
a me faceva paura, tu mi facevi paura». Kafka poi aveva delle
tali capacità creative che questa paura l’ha trasformata in quelle
cose meravigliose e anche un po’ terrificanti che sono i suoi
racconti, i suoi romanzi e i suoi libri. Ma cerchiamo di immaginare
una situazione in cui senza arrivare ai traumi conclamati, quelli
sociologici, che pure credo siano statisticamente molto alti,
arrivino al 30-40%, che sono genitori alcoolisti, genitori violentatori,
incesto, disturbi antisociali, violenza, stupri, gravi lutti e
lunghe permanenze lontano da casa, malattie fisiche di padre e
madre, fughe e allontanamenti da casa, cioè situazioni che si
configurano come un trauma anche nel senso tradizionale della
parola, cioè eventi che eccedono la normale quotidianità della
vita e producono un elemento di anormalità discontinua. Ma anche
senza arrivare a questi traumi, possiamo immaginare che esistono
delle situazioni di rapporto con delle figure familiari che a
loro volta sono capaci di determinare un trauma in quanto esiste
una capacità di certi genitori di indurre in modo del tutto non
voluto nel figlio delle emozioni che accecano la capacità rappresentativa
del figlio stesso. Per esempio Liotti, che è un cognitivista,
si spinge fino a dire che addirittura la depressione materna può
funzionare come un traumatismo nel senso che il bambino, vedendo
la madre sempre perduta in fantasticherie tra il rabbioso e il
malinconico perché ad esempio il marito la tradisce, il bambino
che è sempre alle prese con una madre non reattiva risponde con
aggressività, irritabilità, allarme.[13]
Io credo che si possa dire che comunque, anche se ci vorranno
molti studi ancora, esistono delle reazioni genitoriali, delle
modalità tra genitori e figli, di attivazione di emozioni così
forti che sono molto spesso molto maggiori di quanto noi pensiamo
e che possono mettere un bambino nella condizione di non capire
nulla del perché un genitore si comporta in questo modo. «Ma perché
mio padre fa così?». Questo, ripeto, è un tema molto drammatico
perché io non credo che ce la possiamo cavare dicendo semplicemente:
i genitori sono cattivi, punto e basta. Ci sono le madri violente,
ci sono i genitori violenti, quello è una testa di cavolo, quello
è un criminale, quello è un incestuoso… Sì, ho capito, ma in qualche
modo tutto questo introduce un elemento più enigmatico perché
questi genitori così violenti sono poi anche in qualche modo dei
genitori che ai figli ci tengono, che soffrono per loro, che chiedono
aiuto, che sono discontinui, che piangono quando il figlio sta
male, che mettono in discussione le cure ma mettono in discussione
anche se stessi, che spesso chiedono di essere curati loro ….Non
è così facile dire: ci sono dei genitori cattivi, ci sono dei
figli maltrattati, allora facciamo l’Associazione per il bambino
maltrattato e non ci pensiamo più. No, non è così, è più complicato.
E’ chiaro che bisogna proteggere i bambini dai maltrattamenti.
Ma questi genitori sono dei genitori che a loro volta sono catturati
in un gioco violento molto drammatico, molto tragico, di cui loro
sono al tempo stesso esecutori ma anche in una certa misura trascinati
in questo gioco. Questo non toglie ovviamente nulla alla violenza
di questi genitori e al fatto che molto spesso questi genitori
vadano addirittura allontanati, anzi lasciatemi dire un attimo
che una delle difficoltà più grosse consiste proprio nel capire
quando questi borderline vadano allontanati da casa oppure no,
perché molto spesso la crudeltà di questi genitori raggiunge dei
livelli per cui genitori e figli non possono stare insieme, mentre
altre volte questa stessa crudeltà può essere ricondotta a delle
situazioni gestibili. Non è facile fare questa diagnosi.
Importante è cercare di cogliere in quel
genitore quant’è ancora la quota di dolore presente su cui si
possa fare leva per creare un’area di solidarietà iniziale col
terapeuta e col figlio. Io credo che questi genitori vadano trattati
come delle persone che non hanno riconosciuto delle quote dolorose
e traumatiche in loro stessi. Allora, se noi riusciamo a fargli
riconoscere in una certa misura queste quote, ma probabilmente
questo va fatto non giustificando i comportamenti di maltrattamento,
ma all’interno di una situazione molto complessa in cui il figlio
va tutelato, però io ho visto che c’è una certa prognosi positiva,
fatemelo dire in questo modo un pochino romantico, quando il genitore
piange. Finalmente dice, «dottore mi aiuti un pochino lei perché
io non so se faccio bene o faccio male». Ecco, quando c’è questo
dolore io credo che si può immaginare che ci si può avvicinare
a questi genitori non solo come a delle Erinni, perché dietro
a tutti quei serpenti che questi genitori-erinni hanno in testa
c’è un dolore che tu hai trasformato in una clava con cui tu ammazzi
il mondo. Allora questo dolore che tu hai trasformato in una clava
con cui tu ammazzi il mondo che fine ha fatto? in che parte di
te è finito questo dolore? E’ completamente abolito, non c’è più
la minima traccia di questo dolore? oppure un pochino di questo
dolore insieme riusciamo a farlo saltar fuori? Io sono convinto
che l’”errore palese” di cui parlava prima Nosè è una smagliatura,
una mancanza, un vuoto, qualcosa che non torna, un punto in cui
un discorso filato non è più filato, un punto in cui c’è un buco,
c’è una discontinuità, allora, in fondo è possibile immaginare
che se noi mettiamo questi genitori e questi figli non soltanto
a contatto con chi vince e con chi perde in questo gioco di morte
spaventoso, ma in contatto invece con il fatto che la rabbia può
contattare questa sofferenza e che questa sofferenza nel momento
in cui diventa rabbia viene rinnegata come sofferenza e allora
diventa ingestibile, e la rabbia va gestita come rabbia, non si
può dire poverino…
In qualche modo questa sofferenza, questa
smagliatura, questo vuoto, questa mancanza è un primo punto per
riconoscere un processo alternativo alla rabbia stessa. Detto
in altre parole: se riconosciamo che alla base dello sviluppo
dell’essere umano c’è l’idea che ci manchi qualcosa, in fondo,
scusate, vorrei citare il Simposio di Platone ove lui dice:
«Noi parliamo dell’amore dicendo che l’amore è bellissimo, ma
perché noi siamo sempre abituati a guardare l’amato, e non l’amante,
allora l’amato è bellissimo, è stupendo, è meraviglioso, una donna
stupenda, un uomo affascinante; ma guardiamo l’amante; l’amante
è un signore un po’ calvo, un po’ gobbo, un po’ zoppetto il quale
manca sempre di qualcosa e cerca nella bellezza dell’amato il
completamento di ciò che non ha». Allora questa idea che l’amore
nasce da una mancanza mi sembra un’idea molto ricca anche sul
piano terapeutico, cioè è possibile aiutare queste persone a rompere
questo muro narcisistico, questa corazza che si mettono intorno
perché loro hanno sempre ragione e dire loro: «guardi che nel
problema di suo figlio forse c’è anche il fatto che lei stesso
ha fatto una vita così difficile, suo figlio lei l’ha vissuto
come un problema spaventoso, non l’ha vissuto soltanto come una
gioia che Dio le ha mandato, ma come un problema terrificante.
L’ha sempre fatta soffrire la sua paura di non essere capace».
Allora, questa mancanza di qualcosa può in qualche modo mettere
in moto anche un processo di sviluppo, cioè la mancanza, il vuoto,
il dolore (scusatemi se faccio delle dichiarazioni troppo solenni)
apre all’amore. Non è possibile amare se non si riconosce una
mancanza in se stessi.
Allora se l’amore è il riconoscimento
di una mancanza si può aprire dei varchi dentro questi genitori
e far vedere loro come stanno trasformando una mancanza in controllo,
in rigidità, in un’armatura incrollabile d’acciaio inossidabile
invece di trasformarla in una disponibilità un pochino più affettiva.
Ecco, questo io credo che sia il taglio che si può dare a questo
lavoro con questi genitori e che può dare dei risultati e che
ci permette anche, lasciatemelo dire, di “affettivizzare” un po’
questi genitori, altrimenti c’è il rischio che noi vediamo questi
genitori soltanto come dei mostri, anche se spesso lo sono o lo
sembrano, però molto spesso dietro ci sono questi vuoti e questi
traumi.
llora come avviene questo passaggio
di un trauma da una generazione all’altra? Ma, mi pare che
avvenga prevalentemente in due modi. Un modo è quello che Racamier
e Green chiamano il lutto congelato, un tema che
è molto ricco. Che cos’è il lutto congelato secondo questi autori?
Il lutto congelato sarebbe una modalità di gestione del lutto
che non è neanche la gestione paranoica del lutto di Fornari e
della Klein, che dicevano che uno dei modi per gestire il lutto
è dire che la colpa è di qualcun altro. Allora io dico questa
volta è andata male ma perché mi hanno fatto così, e la colpa
è del medico, di mia madre, di mia moglie ecc., la società. Questo
modo di spostare su un persecutore esterno la colpa di un danno
subito è un modo per liberarsi dal dolore della perdita, perché
attribuire a qualcuno la colpa della perdita dà più senso alla
vita piuttosto che dire semplicemente che la perdita c’è e basta.
«Ho perduto mio figlio, ma sono stati i medici che non sono stati
capaci». E’ orribile, ma è l’idea di una spiegazione paranoica.
Dire ho perduto mio figlio e la vita è fatta anche così è più
difficile, è più drammatico come discorso.
Il lutto congelato è questo: «io
di fronte al dolore annullo in me ogni tipo di affettività, non
provo più nessun tipo di emozione, né positiva né negativa, divento
una specie di pezzo di ghiaccio e gestisco la vita come se fosse
un immenso problema pratico: magiare, cucinare, allestire le cose,
lavorare, uscire, il mondo diventa una gigantesca impresa operativa.
Devo guidare, guido; devo guadagnare, guadagno; devo lavare i
piatti, lavo i piatti: basta». Magari eroicamente, anche sacrificandosi.
Ci sono delle persone che si affaticano tutta la vita come dei
somari che tirano il carretto e basta. Queste persone sembrano
legate in qualche modo alla gestione della vita come una questione
operativa e basta. Questa gestione operativa del lutto congelato
è un tema ricorrente nella letteratura francese, credo che ne
parli Racamier ne Gli schizofrenici e ne Lo psicoanalista
senza divano. E’ il congelamento degli affetti, il
lutto congelato è un lutto di cui non si può parlare, ma per non
parlare del lutto non si parla più di nessuna emozione. Allora
è chiaro che un figlio che si trovi di fronte a un padre o a una
madre che hanno un lutto congelato sarà un figlio il quale percepisce
che c’è un’area della vita che non si può toccare, che lì c’è
una centrale nucleare, ci vuole il piombo altrimenti ci sono le
radiazioni. A questo punto questa persona, questo bambino percepirà
una strada sbarrata, no entry, di lì non si passa. Allora
questa percezione di un segreto indicibile può determinare con
facilità anche una sintomatologia di tipo borderline, può determinare
un’aggressività, una ribellione, un distacco, una perdita di fiducia,
un attacco che miri a dire: «e scrollati tu con questa tua modalità
sempre uguale, sempre operativa, o dimmi il tuo segreto, oppure
non me lo dire e vattene a quel paese, non mi interessi più».
Una modalità attraverso la quale si può
trasmettere il trauma di generazione in generazione è questa modalità
di congelare il lutto. Io ne ho viste molte di queste situazioni:
persone che hanno perduto una persona cara, per esempio, donne
che si sono sposate con un uomo che non amavano dopo che hanno
perduto un grande amore, o uomini che avevano una tematica molto
importante di ambizione bloccata, o che hanno avuto dei trascorsi
violenti, che si sono sentiti figli cattivi, che hanno avuto una
lite furibonda per un fratello che è riuscito meglio, tante situazioni
simili. Queste persone sono persone che facilmente hanno sepolto
sotto un mare di calce una tematica affettiva al prezzo però di
congelare l’intero quadro emozionale. Questo è un modo nel quale
da una generazione all’altra si può trasmettere un trauma. Cioè
in qualche modo una storia antica di famiglia diventa congelata
come i morti di mafia che sono murati dentro i piloni e nessuno
li scoprirà mai più, però si sa che lì c’è qualcosa.
L’altra modalità invece, più frequente,
è costituita da quelle modalità di gestione del trauma di cui
abbiamo parlato prima e che sono l’iperreattività, la dissociazione,
la coazione a ripetere. E’ possibile che questi genitori ex traumatizzati,
già traumatizzati, portino con i loro figli iperreattività, dissociazione
e coazione a ripetere ripetendo le stesse modalità di gestione
del trauma che abbiamo visto per i loro figli. E’ come mettere
insieme due emofilici che appena si toccano si fanno male e reagiscono
con la triade maledetta, iperreattività, dissociazione e coazione
a ripetere; allora l’unica cosa è prendere l’uno da una parte
e l’altro dall’altra, separarli nei limiti del possibile a abituarli
tutti e due a una visione del trauma più efficace che permetta
a tutti e due di far vedere loro come perpetuano all’infinito
una modalità post-traumatica di comportamento e questo permette
anche di prevedere quello che succederà loro.
Io sono convinto che questa tematica che
ho riassunto nei limiti del possibile ci dia una prospettiva terapeutica
significativa: questo presuppone che il borderline sia curato
in piccoli gruppi specializzati, con terapeuti che sappiano bene
con che tipo di patologia hanno a che fare e che lavorino con
il paziente o la paziente e la persona più importante della sua
famiglia.
(*)
La trascrizione della conferenza è stata curata da Cesare Romano.
Le note non fanno parte del testo della conferenza e sono state aggiunte
successivamente a cura di chi ha trascritto il testo. Poiché non sono
state condivise con l’autore della conferenza, del contenuto delle
note è responsabile soltanto il trascrittore. Alcune note sono semplici
indicazioni bibliografiche o brevi precisazioni del testo, altre vogliono
fornire spunti di riflessione ulteriori sull’argomento trattato.
[1] Per approfondire la conoscenza del disturbo
borderline, oltre all’ormai classica opera di Kernberg, Sindromi
marginali e narcisismo patologico, Bollati Boringhieri, e all’altro
testo di Kernberg, Aggressività, disturbi della personalità e perversioni,
Raffaello Cortina 1993, segnalo un’altra serie di opere con vario
orientamento rispetto alla patologia borderline. Il testo di Clarkin
J.F. e Lenzenweger M. F., I disturbi di personalità. Le cinque
principali teorie, Raffaello Cortina, Milano 1997, analizza il disturbo
borderline dal punto di vista della teoria cognitiva, psicoanalitica,
interpersonale, evolutiva e neurobiologica. Il testo di Gunderson
J. G., La personalità borderline. Una guida clinica, Raffaello
Cortina, Milano 2003, rappresenta un manuale sufficientemente completo
e aggiornato e di agevole lettura sulla patologia borderline; il testo
di Paris J, Contesto sociale e disturbi di personalità, Raffaello
Cortina 1997, è un testo di scarso interesse che affronta il disturbo
borderline da una prospettiva bio-psico-sociale ma ponendo un accento
eccessivo sul fattore costituzionale, e contiene affermazioni alquanto
discutibili sul trauma. Un testo di notevole interesse è quello curato
da Cesare Maffei, Il disturbo borderline di personalità, Bollati
Boringhieri. Un testo assolutamente raccomandabile per la completezza
e per la buona qualità degli interventi è quello curato da Joel Paris,
Il disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina, Milano
1995. Un altro testo di notevole interesse, ma di lettura più difficile,
è quello di André Green, Psicoanalisi degli stati limite, Raffaello
Cortina, Milano 1991. Per quanto riguarda la psicoterapia del paziente
borderline, segnalo il testo di Clarkin J.F., Yeomans F. E. e Kernberg
O.F., Psicoterapia delle personalità borderline, Raffaello
Cortina, Milano 2000, che illustra la psicoterapia focalizzata sul
transfert, e il voluminoso testo di Marsha M. Linehan, Trattamento
cognitivo-comportamentale del disturbo borderline, Raffaello Cortina,
Milano 2001, che illustra la terapia dialettico-comportamentale da
lei stessa ideata. Sempre nel 2001 è uscito il bel testo di Correale
A., Alonzi M., et al., Borderline, ed. Borla. Si tratta di
un testo molto denso e ricco ma di piacevolissima lettura , che affronta
la tematica borderline ad ampio raggio ed in maniera esauriente e
che non ha nulla da invidiare ai più corposi manuali che ho precedentemente
citato: un testo assolutamente da leggere prima di qualunque altro
manuale e da parte di tutti gli operatori che sono coinvolti nel trattamento
e nella gestione di questi pazienti. Recentemente è uscito un testo
di Bateman A. e Fonagy P., Il trattamento basato sulla mentalizzazione.
Psicoterapia con il paziente borderline, Raffaello Cortina 2006. Per
un resoconto in prima persona del disturbo borderline consiglio la
lettura del libro di Valentina Colombani, Borderline, Einaudi,
Torino 2004.
[2]
Il testo è stato tradotto in italiano: Judith Lewis Herman, Guarire
dal trauma, Edizioni Magi, Roma 2005.
[3] Sul trauma esiste
una letteratura piuttosto vasta che si può grosso modo dividere in
due filoni: il filone psichiatrico e quello psicoanalitico. Nella
letteratura psichiatrica segnalo i seguenti testi sulla tematica del
trauma, oltre al testo della Herman già citato da Correale. Marinella
Malacrea, Trauma e riparazione, Raffaello Cortina, Milano 1998,
che tratta il tema dell’approccio al paziente traumatizzato e del
percorso terapeutico, con particolare riferimento al tema dell’abuso
sessuale infantile. Su questo tema specifico segnalo il bel libro
di Malacrea e Lorenzini, Bambini abusati, Raffaello Cortina,
Milano 2002, che affronta il problema del trattamento dei bambini
abusati nell’ambito dei servizi e dedica ampio spazio anche agli aspetti
legali oltre alle conseguenze psicopatologiche dell’abuso. Il libro
è molto ben organizzato e questo lo rende un testo di facile consultazione
e adatto alle molteplici figure professionali coinvolte sul tema del
trauma infantile. Un ottimo libro che affronta il tema del rapporto
tra trauma e disturbi di personalità con particolare riferimento al
disturbo antisociale e ai comportamenti aggressivi è il libro di Felicita
De Zulueta, Dal dolore alla violenza, Raffaello Cortina, Milano
1999.
Per quanto riguarda il filone psicoanalitico,
il dibattito sul trauma ha origine dalla riscoperta e rivalutazione
dell’opera di Sándor Ferenczi che ha ricevuto notevole impulso soprattutto
nell’ultimo decennio. Segnalo alcune opere fondamentali sulla tematica
del trauma, che portano tutte contributi di estremo interesse e di
ottimo livello: Franco Borgogno (a cura di), La partecipazione
affettiva dell’analista, Franco Angeli, Milano 1999; Carlo Bonomi
e Franco Borgogno (a cura di), La catastrofe e i suoi simboli,
UTET, Torino 2001 (di questo volume consiglio soprattutto l’introduzione
di Bonomi e Borgogno, La traumatica storia del trauma e il
bel saggio di Bonomi, Breve storia del trauma psichico dalle origini
a Ferenczi, 1870-1930 ca) ; Franco Borgogno (a cura di),
Ferenczi oggi, Bollari Boringhieri, Torino 2005. E’ consigliabile
anche la lettura del Diario clinico di Ferenczi pubblicato
da Raffaello Cortina, Milano 2004. Tra gli articoli segnalo l’interessante
articolo di Steven Reisner, “Trauma: the seductive hypothesis”, in
Journal of the American Psychoanalytic Association, 51/2, 381-413,
2002. Nello stesso anno 2002, la Revue Française de psychanalyse
ha dedicato il terzo numero ad una monografia sul trauma.
[4] Gli studi di neuroscienze
hanno dimostrato l’importanza dello stress e delle strutture ippocampali
sulla registrazione dei ricordi traumatici. Mentre uno stress moderato
faciliterebbe la trascrizione dei ricordi traumatici, uno stress prolungato
tende a danneggiare le strutture ippocampali e i processi di trascrizione
mnestica (Jposeph Le Doux, Il cervello emotivo. Baldini &
Castoldi, pp. 248-255). Due neuroscienziati, Solms e Turnbull hanno
osservato che «è molto probabile che il malfunzionamento ippocampale
sia una componente importante della rimozione (cioè dell’indisponibilità
alla coscienza) di ricordi traumatici. Qesti ricordi sono codificati
in una forma che non permette loro di essere accessibili alla rievocazione
cosciente successiva, a causa della disfunzione ippocampale avutasi
durante il momento traumatico stesso» ( Mark Solms e Oliver Turnbull,
Il cervello e il mondo interno, Raffaello Cortina, Milano 2004,
p. 191.
[5] Con molta probabilità
il brano a cui si riferisce l’autore è la testimonianza di una ragazza
violentata riportata nel libro di Judith Herman, Guarire dal trauma,
Edizioni Magi, Roma 2005. Riporto la testimonianza che si trova
a p. 59 del testo, ove l’autrice affronta il tema della coazione a
ripetere delle persone che hanno subito un trauma:
«Sohaila Adulali, vittima di violenza sessuale,
descrive la sua determinazione a tornare sulla scena del trauma: “Ho
sempre odiato la sensazione che qualcosa si fosse preso il meglio
di me. E quando questa cosa accadde, ero in un’età così vulnerabile,
avevo 17 anni. Dovevo provare che quelli non avevano avuto la meglio
su di me. I tipi che mi hanno violentato mi dissero: ‘Se mai ti troviamo
qui sola, ti prendiamo ancora’. E io gli ho creduto. Così è sempre
con un po’ di terrore che cammino per quel vicolo, perché ho sempre
paura di vederli. Infatti, nessuno che io conosca camminerebbe per
quel vicolo da solo, di notte, perché non è affatto sicuro. Alcuni
sono stati aggrediti ed è fuori questione che sia pericoloso. Eppure
una parte di me sente che, se io non passo di là, allora quelli l’avranno
vinta su di me. E così, molto più degli altri, continuerò a camminare
per quel vicolo (Intervista con S. Abdulali, 1991)».
Questa testimonianza rende conto di come, chi
non comprende quella drammatica tendenza della vittima a ritornare
sul trauma e a riesporsi al trauma nel tentativo di padroneggiarlo,
sia portato a colpevolizzare la vittima stessa con la sbrigativa asserzione
che è stata la vittima a provocare e ricercare nuovi episodi traumatici,
mentre è questa invincibile coazione a ripetere che paradossalmente
riespone la vittima alla ripetizione del suo trauma.
[6] Nell’ambito di
questa “logica del senso” del trauma riporto, come spunto di riflessione,
la posizione di James Hillman, valida all’interno della sua particolare
visione un po’ mistica e un po’ cosmica della psiche umana. L’autore
si riferisce ad un rapporto violento e traumatico padre-figlio. «Non
è tanto il trauma che crea il danno, quanto il “ricordare in modo
traumatico” […] Nella memoria rimango una vittima. La memoria continua
a rendermi vittima. In secondo luogo continua a tenermi nella posizione
di figlio, perché la mia memoria è bloccata nel modo di vedere del
figlio e io non ho spostato la mia memoria. Non è che la violenza
non sia avvenuta, non sto negando che sia avvenuta o che io abbia
bisogno di credere che sia concretamente avvenuta. Ma posso riuscire
a pensare la brutalità – a circoscriverla, come si dice – come un’esperienza
d’iniziazione. Le ferite dovute a mio padre hanno prodotto in me qualche
cosa per farmi capire la punizione, per farmi capire la vendetta,
per farmi capire la sottomissione, per farmi capire la profondità
della rabbia fra padri e figli, che è un tema universale, e io ho
avuto parte in esso. Ero in esso. E così ho in qualche modo
spostato la memoria dalla situazione di figlio vittima di un padre
miserabile. Sono entrato nelle fiabe, nei miti, nella letteratura,
nel cinema. Con la mia sofferenza sono entrato in un mondo immaginale,
non in un mondo semplicemente traumatico» (J. Hillman, Cent’anni
di psicanalisi e il mondo va sempre peggio, BUR Rizzoli, 2005,
pp. 37-38). Questa sembra una modalità di superare il trauma attraverso
una falsificazione della memoria, più che un suo spostamento. Supero
il mio trauma perché mi racconto una storia nella quale non figuro
più come vittima ma figuro come testimone di un destino cosmico. Questa
modalità ricorda la costruzione del romanzo familiare dei nevrotici
di cui parlava Freud, e induce ad una accettazione della propria storia
traumatica innescando fantasie megalomaniche di partecipazione cosmica
al destino del mondo che sfiorano la costruzione delirante. Ciò che
mi sembra ancora più importante è il fatto che una tale visione del
trauma non apre nessuna prospettiva terapeutica nuova.
[7] Riporto per esteso
il brano di Freud cui si riferisce il relatore: «Insisto nella raccomandazione
di far stendere il malato su un divano mentre prendiamo posto dietro
di lui, in modo ch’egli non possa vederci. Questa disposizione ha
un significato storico, è ciò che è rimasto del trattamento ipnotico
dal quale si è sviluppata la psicoanalisi. Merita però di essere mantenuta
per molteplici ragioni. In primo luogo per un motivo personale, che
però altri, forse, condividono con me. Non sopporto di essere fissato
ogni giorno per otto (o più) ore da altre persone. Dato che mi abbandono
io stesso, mentre ascolto, al flusso dei miei pensieri inconsci, non
desidero che l’espressione del mio volto offra al paziente materiale
per interpretazioni o lo influenzi nelle sue comunicazioni». Freud
S. (1913-14), Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi,
OSF, vol. 7, p. 343, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1995.
[8] Su questo disturbo
della memoria cito l’interessante osservazione di Michael Stone: «Una
caratteristica particolare della memoria dei pazienti borderline è
che essi rimangono in balìa dell’ultima impressione sensoriale sorta
all’interno di un rapporto interpersonale. Quindi anche l’atteggiamento
più amorevole da parte di un partner conosciuto già da molti anni
può, in un solo istante, essere rimosso dalla memoria se l’ultima
interazione con lui/lei viene interpretata (correttamente o a torto)
come disturbante. Potrebbe seguirne un’esplosione di rabbia, accompagnata
da invettive come “non mi hai mai amato”, oppure “Sei sempre stato
un buono a nulla…” . La persona borderline si comporta come se i legami
tra la memoria a breve e a lungo termine si fossero interrotti. Tuttavia,
il giorno dopo, una volta ottenuti sufficienti sostegno e rassicurazione,
l’indicatore attitudinale potrebbe spostarsi verso l’estremo opposto»
(Stone, “Eziologia del disturbo borderline di personalità”, in: Paris
J., Il disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina,
1995, p. 100).
[9]
Meares R., Intimità e alienazione, Raffaello Cortina, Milano
2005.
[10] Sul tema della
dissociazione segnalo il recente volume di Steinber M. e Schnall M.,
La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali, Raffaello
Cortina, Milano 2006, e il volume di prossima uscita: Bromberg Ph.
M., Clinica del trauma e della dissociazione, Raffaello Cortina,
Milano 2006.
[11] Il fatto che
il disturbo antisociale sia più frequente nei maschi potrebbe per
esempio trovare una spiegazione in questa affermazione di Michael
Stone: «I maschi che subiscono abusi fisici, specialmente se successivsamente
sviluppano la sindrome BPD, manifestano spesso una miscela di comportamenti
antisociali» (Stone, “Eziologia del disturbo borderline di personalità”,
in: Paris J. (a cura di), Il disturbo borderline di personalità,
Raffaello Cortina 1995, p. 95.
[12] Kafka F.,
Lettera al padre, Tascabili Economici Newton, Roma, 1994. Riporto
l’inizio della lettera al padre, dalla quale emerge il tema dominante
della paura così come lo riferisce Correale: « Carissimo padre, di
recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te.
Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio
per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su
una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli
neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto,
il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché
anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le
sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran
lunga la mia memoria e il mio intelletto» (p. 25). Sul tema dell’opera
di Kafka e della sua relazione con l’infanzia traumatica dell’autore
consiglio di leggere il libro di Alice Miller, Il bambino inascoltato,
Bollati Boringhieri, Torino 1993, al capitolo 20: “La letteratura:
le sofferenze di Franz Kafka”, pp. 251-312. Il padre di Kafka, in
realtà, non lesse mai questa lettera, perché proprio per la paura
del padre Kafka la inviò alla madre perché questa la facesse poi avere
al padre, ma la madre invece la restituì al mittente.
[13] Sul tema dell’influenza
che esercita la depressione materna sul bambino segnalo un interessante
testo di André Green del 1980 intitolato La madre morta, che
costituisce il sesto capitolo del volume di Green, Narcisismo di
vita, narcisismo di morte, Borla, Roma 1985, pp. 265-303. In questo
bellissimo testo André Green analizza l’«imago che si è formata nella
psiche del bambino in seguito a una depressione materna, trasformando
brutalmente l’oggetto vivente, sorgente della vitalità del bambino,
in una figura lontana, atona, quasi inanimata […] La “madre morta”
è dunque, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, una madre
che resta in vita, ma che è, per così dire, morta psichicamente agli
occhi del piccolo bambino di cui si prende cura» (p. 265).