L’approccio post-razionalista alla
psicologia e alla psicopatologia (Guidano 1992, 1995, 2007) è
da annoverare nel più vasto ambito della metateoria costruttivista,
in particolare del costruttivismo radicale o comunque di una versione
forte del costruttivismo (Von Glasersfeld, 1988; Mannino,
2002). In quest’ambito i disturbi psichici, e quindi anche il
Disturbo Borderline, non sono visti come unità naturali di malattia,
ma come tentativi di mantenimento di una coerenza interna che,
se dal punto di vista di un osservatore esterno possono apparire
disfunzionali, acquistano un significato affatto particolare se
riferiti al contesto personale di chi li ha generati.
Cenni di epistemologia costruttivista
George H. Mead, rappresentante della
corrente (filosofica e psicologica) nota come Pragmatismo, ed
epigono di William James, affermava che un’identità non può mai
essere disfunzionale, in quanto rappresenta il punto di vista
dal quale una persona guarda il mondo. Non può quindi essere riferita
ad una qualsiasi norma, ma solo alla storia personale di chi la
possiede. In quest’affermazione si trova mirabilmente racchiuso
tutto il nucleo del pensiero costruttivista (ancora prima che
Von Foerster, Von Hayek e Von Glasersfeld lo formalizzassero)
e, in particolare, l’interdipendenza fra conoscenza, costruzione
dell’identità personale e prassi del vivere (il “Living means
knowing” di H.Maturana) nella sua dimensione storico-ermeneutica
(Arciero, 2002).
Al Pragmatismo e a Mead si deve anche
la concettualizzazione dell’identità personale come “Self”’, quel
Sé che è al tempo stesso “soggetto dell’esperienza ed oggetto
a sé stesso”, che delinea la continua dialettica fra conoscenza
tacita (“the I”, immediato e prelogico: è la dimensione corporea,
emotiva della conoscenza: è il senso) e conoscenza esplicita
(“the Me”, il riordinamento logico-semantico, la dimensione del
pensiero, della cognizione: è il significato). Questi autori
potrebbero essere considerati come precursori delle odierne teorie
sull’intersoggettività, ponendo il focus sulla continua interazione
fra individuo e ambiente sociale nella negoziazione e nella costruzione
del senso e del significato, al di là di qualsiasi visione rappresentazionista.
Un Sé, un’identità personale, si costruisce
quindi fin dai primissimi istanti della vita in una continua
negoziazione (intersoggettiva) di senso e di significato col
proprio ambiente socio-culturale:
“Constructive
metatheory (...) adopts a proactive (vs. reactive and representational)
view of cognition and the organism, (b) emphasizes tacit
(unconscious) core ordering processes, and (c) promotes
a complex systems model in which thoughts, feelings and
behaviour are interdependent expressions of a life span
developmental unfolding of interactions between self and
(primarily social) systems”. (Mahoney, 1995)
È quindi intuitiva la primaria
importanza che, in quest’ottica, hanno gli studi sull’attaccamento,
e non solo quelli arcinoti che mettono in evidenza la correlazione
fra disorganizzazione dell’attaccamento e insorgenza di disturbi
Borderline e Dissociativi (Liotti), ma anche quelli di Trevarthen,
Schaffer, Kaye, Newson che studiano la regolazione e sintonizzazione
intrersoggettiva delle emozioni, sia nel loro aspetto comportamentale
che psicofisiologico. Del resto, la disregolazione emotiva
sembra essere uno degli elementi centrali nelle teorie esplicative
del disturbo Borderline.
Dopo le prime fasi dell’attaccamento, l’insorgenza delle
facoltà cognitive superiori non va a sostituire il modo tacito,
emotivo di conoscere ma lo arricchisce, lo articola, ne facilita
la trasformazione in strutture cronologiche, dotando la nostra
coscienza di proprietà di sequenzializzazione, flessibilità,
astrazione, generatività di significati sia logici che narrativi
straordinariamente più ricche rispetto a qualunque altra specie
animale; tutte queste dimensioni possono risultare, in qualche
modo, compromesse nei disturbi psicopatologici. Anche il disturbo
borderline non sfugge a questa regola: è nel gioco fra l’immediatezza
della conoscenza e il suo riordinamento semantico che vanno
ricercate le radici del disturbo, ed è nella ricostruzione di
una trama narrativa capace di contenere emozioni squassanti
che si trova la chiave terapeutica: il problema è come farlo.
Il terapeuta costruttivista di fronte
al Paziente Borderline
Più di ogni altro paziente, il borderline
mette infatti a dura prova qualsiasi tipo di organizzazione, sia
quella mentale dei terapeuti sia quella istituzionale dei Servizi.
L’ambivalenza nella ricerca d’aiuto, l’oscillazione fra idealizzazione
e svalutazione insieme all’intensa atmosfera emotiva che si genera
nel contatto con questi pazienti fa sì che anche terapeuti e Servizi
oscillino, essenzialmente fra atteggiamenti di accettazione incondizionata
e altri di rifiuto più o meno palese.
Possiamo quindi dire che il primo
passo per iniziare qualsiasi tipo di terapia è la costruzione,
la continua verifica e il rimodellamento del contesto clinico
e interpersonale, con la costruzione di una vera e propria alleanza
terapeutica, anche esplicita, cui rifarsi continuamente ogni
volta che il paziente (o il terapeuta) perde la bussola. È
forse questo il punto debole dei Servizi: l’impressione di chi
scrive, a confronto sia della propria esperienza che della letteratura,
è che nel lavoro d’èquipe così come è inteso oggi vi siano modalità
che forse favoriscono le oscillazioni e le scissioni del paziente
borderline. Per utilizzare una metafora, è come se il borderline
cercasse tutto il Servizio come contenitore, ma l’ordinatore debba
essere uno, uno soltanto e venga costantemente messo alla prova,
direttamente ed indirettamente, rimandando alla necessità di una
personalizzazione del trattamento che spesso viene rifuggita
dal terapeuta e/o osteggiata da dinamiche interne all’èquipe curante
(o, al contrario, può essere cercata limitando l’intervento dell’èquipe
e quindi la complementarietà degli interventi legata alle esigenze
affettive dei pazienti).
Tale personalizzazione può però essere,
quando alcune manifestazioni di attacco alla relazione siano particolarmente
massive, controproducente: in tal caso il ricorso alla coterapia,
anche in forma di doppia terapia individuale, va presa in
seria considerazione.
Pillole sì o pillole no? Non ho risposte
(ho la presunzione di dire che non ci sono risposte)
definitive e che vadano bene per tutti i casi di Disturbo Borderline.
Usando un termine scientifico oggi in voga potrei dire che si
tratta soprattutto di una farmacoterapia dimensionale, che
vada ad incidere sugli aspetti di prevalenza affettivi,
dissociativi, schizoidi delle manifestazioni comportamentali
nei singoli casi. Tornando al concetto di alleanza così come l’ho
delineato sopra, potremmo dire che nessuno come il paziente borderline
ci mostra come il sollievo dalla sintomatologia prodotto dai farmaci
sia legato a doppio filo ai dicotomici atteggiamenti psicologici
(Gunderson, 2004) di questi pazienti, e che quindi la continua
ridefinizione, assieme a una cautela prescrittiva legata a fermezza
nelle proprie scelte, di scopi e limiti della farmacoterapia sia
una componente fondamentale, al di là di pur importanti conoscenze
ed ancoraggi biochimici, nella formazione di un’alleanza.
Ci vuole molto tempo (e anche in questo
concordiamo con Gunderson) perché un’alleanza “contrattuale” e
“relazionale”, che è quella che tentiamo di mettere in piedi fin
dalle primissime fasi dell’incontro, si trasformi in un’alleanza
“di lavoro”, ossia legata ad una particolare tecnica psicoterapeutica.
Spesso si aspettano anni… buon lavoro!!!